Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


domenica 7 aprile 2013

OP ISRAEL 2.0: ATTACCATI CENTINAIA DI SITI ISRAELIANI

Sabato 06 Aprile 2013 23:56 

Attacchi Ddos, leaks di informazioni segrete e violazione di migliaia di account Facebook sionisti. Anonymous risponde così alla  violazione della tregua da parte di Israele dopo che in settimana Gaza è stata bombardata dagli F-16 israeliani.

op-israelAnnunciata un mese fa da rumors, tweet, post in rete ed anticipata dalla clamorosa azione ai danni del Mossad messa in atto dalle crew RedHack e Sector404, la seconda fase di #OpIsrael ha preso il via alle 16 di oggi, diverse ore prima che scoccasse l'ora X del count down (inizialmente prevista per la mezzanotte del 7 aprile).
 «Oggi è il primo giorno in cui molte cose cominceranno a cambiare. In un modo o nell'altro». È questo il messaggio (lanciato dall'account Twitter @Op_Israel) che ha dato via al walzer di tango down a cui sono stati sottoposti diversi network militari ed istituzionali di Tel Aviv. Un volume di fuoco intensissimo che fino a questo momento ha investito una quantità imprecisata di obiettivi: alcune fonti in rete parlano di 1300 siti defacciati. Altre, più caute, riportano numeri più bassi ma ugualmente significativi: sono almeno un centinaio, tra agenzie governative, banche e forze armate, i server finiti nel mirino. La lista degli obbiettivi è lunga: fra questi la Knesset, l'home page del primo ministro, quella della polizia  e del ministero delle infrastrutture nazionali.  Ma il vero piatto forte è un altro ovvero i 19000 account Facebook israeliani di cui le crew di hacker, almeno una ventina quelle coinvolte, hanno preso possesso: una ritorsione messa in atto come risposta alla recente chiusura di diversi profili di attivisti filo-palestinesi. Sono stati inoltre divulgati diversi leaks ottenuti in seguito a delle azioni di hacking: una di queste è quella del Latin Hack Team che ha violato i database del sito israelmilitary.com, il sito ufficiale di forniture militari dell'Israel Defence Force. Come risultato sono finiti on-line centinaia di numeri di carte di credito appartenenti a membri dell'esercito israeliano ed alcuni documenti secretati (la cui attendibilità non è però al momento dimostrata).
 L'account Twitter @Op_Israel è in continuo aggiornamento e si contano a decine i comunicati di rivendicazione che accompagnano ognuna di queste singole azioni. Il primo ad essere reso disponibile on-line è arrivato in forma di video: una press-release caricata su Youtube dove Anonymous ha spiegato le ragioni per cui ha interrotto la tregua, siglata il 21 novembre 2012 al termine dell'aggressione israeliana a Gaza (tregua a cui il network di hacktivisti si era fino a questo momento ufficialmente uniformato). Nel video si afferma che le ostilità nei confronti dello spazio digitale israeliano sono riprese a causa dell'atteggiamento di Tel Aviv verso il popolo palestinese: tra i motivi scatenanti, oltre alla violazione del cessate il fuoco di mercoledì notte (quando Gaza era stata nuovamente colpita dalle bombe degli F-16 con la stella di David), nel comunicato vengono citati anche le torture ed i maltrattamenti imposti ai prigionieri palestinesi nelle carceri sioniste, l'embargo su Gaza ed il moltiplicarsi degli insediamenti dei coloni nella West Bank.
 Questa prima fase di #OpIsrael 2.0, forse perché annunciata con largo anticipo, non ha però colto del tutto impreparati gli amministratori dei network governativi e militari israeliani i quali, pur limitandosi ad un atteggiamento di difesa passiva, sono riusciti a contenere i danni. In alcuni casi infatti i siti istituzionali colpiti sono stati ripristinati in pochi minuti. È ancora presto dunque per dire quale sarà il risultato di questa partita.


Fonte:
 

http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/7400-opisrael-20-attaccati-centinaia-di-siti-israeliani 

7 aprile 1979: quando lo Stato si scatenò contro i movimenti

Dal blog di Paolo Persichetti, http://insorgenze.wordpress.com/ 

dicembre 21, 2010

Ogni volta che apre bocca Maurizio Gasparri ci ricorda che esiste il Cottolengo. Ma questo non è sempre un buon motivo per ignorare le sue sortite. La sua richiesta di scatenare contro il movimento “arresti preventivi”, l’accusa di “assassini potenziali” rivolta contro i manifestanti, danno voce in realtà a settori consistenti degli “apparati dello Stato” e pezzi di opinione pubblica reazionaria. I tentativi di dialogo con le forze di polizia sponsorizzati in questi giorni da alcuni giornali ed esponenti politici, come Veltroni, la ricerca di una mediazione con i manifestanti, mostrano tuttavia che negli apparati esistono linee diverse.
Liquidare l’offensiva repressiva lanciata dal presidente dei senatori Pdl, uno dei più servili maggiordomi del Berlusconismo che da ministro ebbe il compito di varare una riforma del sistema televisivo scritta dagli uffici studi di Mediaset, come un rigurgito fascista sarebbe un grave errore. Il nuovo “sette aprile” chiesto a gran voce dall’ex missino, fratello di un generale dell’Arma dei carabinieri, non fu uno strumento di repressione ripreso dal ventennio mussoliniano, ma un dispositivo di repressione giudiziario-poliziesco e politico-culturale, messo a punto dal partito comunista italiano, sostenuto con feroce coerenza dal giornale fondato e direto da Eugenio Scalfari. Il fatto che oggi sia un ex-post sempre fascista a reclamarlo chiama in causa gli eredi del Pci sparpagliati un po’ ovunque, nel Pd, nella Federazione della sinistra, in Sel o nell’Idv, alcuni persino nel Pdl. Se oggi chi milita in queste formazioni pensa che evocare il 7 aprile sia prova di fascismo, deve spiegarci perché allora venne congeniato quel modello di repressione dei movimenti e perché fino ad oggi non ne ha mai preso le distanze

 

Paolo Persichetti
Liberazione 22 dicembre 2010

Chi ha definito un rigurgito fascista la richiesta di un «nuovo 7 aprile» fatta da Maurizio Gasparri, cioè di «una vasta e decisa azione preventiva» da scatenare  contro i centri sociali ritenuti, a suo dire, i responsabili degli scontri avvenuti il 14 dicembre scorso a Roma, non ha detto una cosa giusta. Pietro Calogero, il pm di Padova che congeniò il teorema accusatorio firmando i primi 22 ordini di cattura che diedero via al blitz contro il gruppo dirigente dell’area dell’Autonomia operaia, tra cui Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone, non era fascista. L’intera inchiesta, in realtà, fu preparata e supportata dal sostegno politico diretto del partito comunista, dall’azione di un suo dirigente locale, Severino Galante, dal lavoro riservato della sezione “Affari dello Stato” diretto da Ugo Pecchioli, dalla funzione di raccordo tra magistratura e sistema politico svolta da Luciano Violante. Membri del Pci erano alcuni dei testimoni chiave che consentirono di formulare la prima salva di accuse. In quegli anni il Pci dispiegò tutta la sua macchina organizzativa senza badare a sfumature per monitorare nei quartieri e nei posti di lavoro gli “estremisti” e i “sovversivi”, i cui nomi venivano poi affidati ai nuclei speciali del generale Dalla Chiesa. Addirittura intervenne sui giurati del processo di Torino contro il nucleo storico delle Br. Democristiano era invece Achille Gallucci, il giudice istruttore romano che lo stesso giorno spiccò altri mandati di cattura per «insurrezione armata contro i poteri dello Stato», avviando così il secondo troncone dell’inchiesta. Quell’episodio che molti giuristi, come Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli, continuano a ritenere una delle pietre miliari dell’emergenza giudiziaria che ha scardinato il sistema delle garanzie giuridiche avviando anche quella cultura della supplenza giudiziaria, senza la quale non avrebbe mai visto la luce “Mani pulite”, che aprì la strada al berlusconismo, nacque nel cuore della stagione del compromesso storico, della linea della fermezza, del consociativismo che annullava ogni differenza tra maggioranza e opposizione. Il Movimento sociale, partito nel quale militava all’epoca l’attuale presidente dei senatori del Pdl, era fuori dell’arco costituzionale. La legislazione speciale, l’introduzione delle carceri speciali, gli spregiudicati metodi d’indagine che permisero l’arresto dei militanti dell’Autonomia, votati anche con l’assenso dell’opposizione parlamentare, resero di gran lunga più repressivo il capitolo dei delitti politici presente nel codice penale elaborato per punire gli antifascisti da Alfredo Rocco, guardasigilli del regime mussoliniano. Il modello 7 aprile introdusse il ricorso al «rastrellamento giudiziario», cioè la contestazione di reati associativi di vecchio e nuovo conio senza l’individuazione di fatti circostanziati, la cui prova veniva rinviata nel tempo grazie ad una custodia preventiva allungata a dismisura. Di fatto l’arresto si trasformava in un vera e propria pena anticipata scontata prima della sentenza. In questo modo le accuse si fondavano sul principio della “tipologia d’autore”, ad essere contestata era l’identità e la storia politica dell’imputato. Scelta motivata all’epoca con la necessità “prosciugare l’acqua dove nuota il pesce” per difendere lo Stato dall’attacco dei gruppi armati: l’anno prima era stato rapito e ucciso dalle Br il presidente della Dc Aldo Moro, attorno al movimento del ’77 si era diffusa un’area insurrezionale, un’arborescenza di sigle che alimentava azioni armate ovunque mentre il conflitto sociale era giunto all’apice. Pochi mesi prima era stato ucciso Guido Rossa. Tuttavia l’introduzione di quello che fu un vero “stato di eccezione giudiziario” venne sempre negata dalle forze politiche, ciò spiega il rimosso e il tabù attuale. La sinistra non ha mai fatto i conti con quella scelta, anzi col passar delle svolte e delle sigle l’ha iscritta a pieno nel proprio patrimonio culturale ritrovandosi nella paradossale situazione che vede oggi un fascista di allora rivendicarne con estrema naturalezza l’impiego. E’ stata la sinistra, spalleggiata dal partito-giornale di Repubblica, a mettere in piedi il micidiale modello repressivo e l’arsenale giuridico rivendicati oggi contro i movimenti da un personaggio come Gasparri. Quanto basta per avviare una riflessione critica mai veramente affrontata.


Fonte:

http://insorgenze.wordpress.com/2010/12/21/7-aprile-1979-quando-lo-stato-si-scateno-contro-i-movimenti/

7 aprile 1944: gli assalti ai forni e le donne di Ponte di Ferro

Dal blog di Valentina Perniciaro, http://baruda.net/

Roma, tra il febbraio e l’aprile del 1944, è schiacciata dalla morsa della fame, è una città sfinita, murata dall’occupante nazista. È il momento peggiore della guerra: bombardamenti, attentati, rastrellamenti, rappresaglie, gli Alleati sono fermi ad Anzio, non vanno né avanti né indietro, gli uomini al fronte o prigionieri o nascosti o non se ne sa più niente; i figli e i vecchi da sfamare.
L’approvvigionamento di una città di quasi due milioni di abitanti come Roma si presenta soprattutto come un problema di trasporti, visto che i rifornimenti di viveri arrivano non solo dal Lazio, ma anche da regioni molto più lontane; se fino al gennaio 1944 gli alimenti, nonostante gli attacchi aerei alle linee ferroviarie, erano ancora trasportati con i treni merci, donne_nella_resistenzadopo lo sbarco alleato a Nettuno e l’aggravarsi della situazione per tutte le ferrovie dell’Italia centrale, i trasporti avvengono per mezzo di autocarri. Quotidianamente partono 100 autocarri per il rifornimento della città. Ma i viveri che arrivavano non sono comunque sufficienti, tanto che l’Ufficio alimentare dell’Amministrazione militare vede nella parziale evacuazione della città l’unica possibile “soluzione”, ma, prevedibilmente, il tentativo non viene mai fatto. Interi quartieri restano senza pane. Poveri e ricchi sono ugualmente costretti a ricorrere al mercato nero. I romani mangiano, quando ne trovano, carrube lesse, pane di vegetina, bucce di patate bollite; bruciano mobili d’arredamento per scaldarsi e cucinare. La città sopravvive sospesa in una atmosfera di terrore, fame e freddo.
La situazione economica alimentare va sempre peggiorando e la popolazione trae motivo di ulteriore pessimismo dalle recenti disposizioni circa l’aumento del prezzo del pane e la ritardata distribuzione di parte della già modesta razione di pasta. Si vorrebbe una energica e fattiva azione da parte delle autorità per arrestare la corsa al rialzo dei prezzi che, se favorisce l’ingorda speculazione dei commercianti e dei cosiddetti borsari neri, pregiudica ed esaspera i consumatori ed in special modo wlaresistenzatrasteverequelli appartenenti alle classi meno abbienti o a quelle costrette a vivere del reddito fisso.
A complicare ulteriormente una situazione già inquietante, da una parte gli Alleati, che mitragliavano i convogli di viveri diretti in città, dall’altra gli occupanti che sequestravano per il loro uso, ma soprattutto per una sorta di deontologia dell’occupazione, intere partite di generi alimentari. L’idea che i tedeschi tenessero tutti i depositi sequestrati per il loro uso e consumo, è molto diffusa.
Ulteriori problemi provoca un vertiginoso ma invisibile (perché clandestino, non ufficiale) aumento della popolazione: dai Castelli, da Genzano, da Albano, dalle campagne intorno ad Anzio e Nettuno, arrivano a Roma intere famiglie di disastrati che cercano alloggio nelle scuole, nelle caserme o nell’ala abbandonata di qualche ospedale, un incremento silenzioso che va ad accelerare un andamento già crescente della popolazione romana, prima del ventennio fascista. Si calcola che oltre 200.000 persone vivessero in alloggi di fortuna in condizioni inumane e senza lavoro. E trovare cibo diventa ancora più difficile.
Gli ospedali sono pieni di bambini denutriti, e si contano numerosi casi di piccoli deceduti per fame e malattie da denutrizione: forse più di trecento, una strage, altre vittime innocenti da inserire nell’elenco di atrocità commesse dai nazifascisti a Roma e in Italia.
Dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo, la rappresaglia tedesca non si ferma alla strage delle Fosse Ardeatine, ma vuole colpire il maggior numero di persone possibile. Così, per ordine diretto del generale Maeltzer, la razione di pane dei romani viene ridotta da 150 a 100 grammi al giorno. Oltretutto è pane nero, spesso ammuffito.
Ai primi di aprile del 1944, dopo il catastrofico e lungo inverno, le condizioni alimentari si fanno intollerabili portando allo stremo la popolazione. La situazione nel settore del pane peggiora in modo drammatico con l’approssimarsi del fronte. A metà aprile, a causa delle difficoltà dei trasporti e dei disordini creati dalla lotta partigiana, la distribuzione ufficiale subisce un’ulteriore diminuzione; a quel punto ci si rende conto che non solo circolano 50.000 carte per il pane falsificate, ma anche che ingenti quantitativi di farina sono stati venduti di contrabbando dagli organi addetti alla distribuzione.psiup
Protagoniste di un così oscuro periodo sono le donne che da sole, con ogni mezzo, con l’astuzia o la violenza, cercano di sopravvivere alle miserie della guerra. È così che avvengono i primi assalti ai forni, destinati a diventare sempre più frequenti; sono le donne spinte dal bisogno che li pensano e li organizzano spontaneamente anche se qualche volta c’è dietro l’aiuto e l’impulso dei gruppi femminili della Resistenza. Si passano parola, vanno all’assalto provviste di sporte per metterci dentro quel po’ che riusciranno a prendere, usano i figli come scudo; sono le donne che si organizzano per assalire i forni ove si panifica il pane bianco per fascisti e nazisti.
Gli assalti avvengono nei quartieri di Trionfale, Borgo Pio, Via Leone Quarto. A guidarle in questi quartieri sono le sorelle De Angelis, Maddalena Accorinti ed altre.
In via Leone IV, davanti alla sede della Delegazione rionale, scoppia una rabbiosa protesta contro la sospensione della distribuzione di patate e farina di latte. Nella stessa strada viene assaltato il forno De Acutis, ma qui c’è il consenso dello steso proprietario, che distribuito il pane e la farina, si dà alla clandestinità.
Sempre fra i Prati e il Trionfale, zona di piccola e media borghesia, avvengono assalti ai panifici in via Vespasiano, via Ottaviano e via Candia.
Il 1° aprile 1944, di fronte a un forno di via Tosti, nel quartiere Appio, una forte manifestazione di donne contro la riduzione della razione di pane, dà inizio ad una nuova e disperata serie di assalti ai forni.
“Sabato primo aprile, al forno Tosti, quartiere Appio, la fila era interminabile: le donne attendevano da più di due ore l’arrivo dell’ordine di distribuzione e non si2550_67020193277_618018277_2260848_380951_n capiva perché tardassero tanto ad aprire. Esasperate le donne protestavano ad alta voce, erano furibonde, e c’era tra loro chi temeva che non ci fossero neppure quei cento grammi per tutti. [] aveva cominciato una in prima fila in faccia ai militi [che vigilavano alla porta]: “Ci ho quattro creature che me se magnano puro a me se je porto sta crioletta de cento grammi! Ve volete da’ na mossa! Buffoni!”. Un milite la prese per il braccio e la portò fuori dalla fila, le donne cedettero che la volessero arrestare e cercarono di strapparla dalle mani della GNR: seguì un parapiglia, tutte strillavano, insultavano; poi d’improvviso, rotta la fila, si ammassarono tutte davanti alla porta del forno. La porta forzata cedette e tutte entrarono [] le donne trovarono, oltre al pane nero, anche sacchi di farina bianca, forse pronti per la panificazione per le alte gerarchie fasciste o per le truppe di occupazione tedesche”.
Nei giorni a seguire e per tutto il mese di aprile, furono attaccati camion carichi di pane, come a Borgo Pio dove la folla assale un camion, scortato da militi fascisti, che trasporta pane per una caserma. Tale è l’improvvisa e inaspettata irruenza delle assalitrici che i militi possono fare ben poco e si trovano il camion completamente saccheggiato. Altri assalti hanno lugo a forni in tutti i quartieri, costringendo i tedeschi a scortare ogni convoglio e a presidiare ogni punto di distribuzione.
L’episodio più tragico avviene all’Ostiense, al Ponte di Ferro. Il 7 aprile 1944 decine di persone si ritrovarono di fronte al mulino Tesei per chiedere pane e farina; si diceva che quel mulino producesse pane destinato ai militari tedeschi. Le donne dei quartieri limitrofi (Ostiense, Portuense e Garbatella) avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e che probabilmente aveva grossi depositi di farina. La folla cominciò a reclamare il pane, i cancelli del forno furono sfondati e le donne riuscirono ad entrare. Il direttore del forno, forse d’accordo con quelle disperate, lasciò che entrassero e che si rifornissero di pane e farina, ma qualcuno avvertì la polizia tedesca che arrivò quando le donne erano ancora sul posto. A quel punto i militi fascisti presenti chiesero l’intervento delle SS tedesche, che bloccarono la strada, molte donne riuscirono a scappare, ma dieci di loro furono prese, afferrate di forza, portate sul ponte e lì fucilate in fila, contro la ringhiera. A monito della popolazione i tedeschi ne lasciano i cadaveri sulla spalletta del ponte fino alla mattina dopo quando alcuni lattonieri e sfasciacarrozze della zona vengono costretti a caricare le povere salme su di un camion. Da allora non si è mai saputo dove siano state portate e sepolte.
Le dieci vittime innocenti della furia nazi-fascista furono: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.
Durante un nuovo assalto, quello avvenuto il 2 maggio, all’indomani delle manifestazioni del giorno prima, una guardia della PAI (la Polizia Africa Italiana che funge da servizio d’ordine per conto del Governo fascista repubblicano), accorsa per sedare il tumulto uccide con una fucilata una donna del Tiburtino III, Caterina Martinelli, madre di sei figli.
Cade sul selciato con sei sfilatini nella borsa della spesa, una pagnotta stretta al petto, in braccio una bambina ancora lattante: stramazza a terra sopra la figlia che sopravvive ma che avrà poi la spina dorsale lesionata. Una specie di monumento alla madre affamata.
Il giorno dopo, sul marciapiede ancora insanguinato, un cartello antifascista ricorda la vittima. Quel cartello, subito fatto togliere dalle autorità, tornerà come lapide a Roma liberata.
Mario Socrate, partigiano gappista e poeta, così testimonia di quell’episodio: “… ci fu l’assalto al forno e uno della Pai sparò e uccise una donna. Allora noi facemmo una manifestazione, e io quel giorno stesso ho scritto la lapide e la mettemmo al punto dov’era ancora il sangue a terra”. Fu lui a scrivere le parole che si possone leggere ancora oggi nella lapide sulla facciata di una casa in via del Badile 16:
Il 2 maggio 1944 in questo luogo durante un assalto al forno per cercare il pane per i suoi figli venne uccisa dalla violenza fascista Caterina Martinelli «io non volevo che un po’ di pane per i miei bambini non potevo sentirli piangere tutti e sei insieme».

Fonti :