Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


martedì 30 aprile 2013

Dal 30 aprile 1977 a oggi: Madres de plaza de Mayo

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di Sabatino Annecchiarico (*)

Hebe denunciò i responsabili. Denunciò i militari. Denunciò la Chiesa. Denunciò le aziende transnazionali. Denunciò i corrotti avvocati. Denunciò il silenzio di quelli che non erano innocenti. Reclamò in ogni istanza la «comparsa in vita» dei cari, non solo egoisticamente i suoi, quelli di tutti. Socializzò la battaglia per i diritti negati. Soprattutto per quelli che non avevano voce. Oggi è la presidente dell’Associazione delle Madres de Plaza de Mayo. In quella irreale realtà dell’autunno del ’77 solo persone pazze, o di eccezionale coraggio, erano in grado di alzare la testa, di alzare la voce. Fu un giovedì d’aprile di quell’anno che un gruppuscolo di donne con il capo coperto da un fazzoletto bianco si diedero appuntamento nella Plaza de Mayo, storica piazza antistante alla casa di governo, occupata dai militari.

L’autunno australe a Buenos Aires si fa sentire. Il forte vento gelido che soffia dall’Atlantico arriva in città dal sudest assieme alle fitte piogge che bagnano persino le ossa; sono le caratteristiche climatiche di quella passionale città già culla del tango. Uscire in piazza in quella stagione, fare una passeggiata all’aria aperta, sono ricordi attaccati nella memoria dell’estate appena trascorsa.
Ma quell’aprile del 1977 il freddo era diverso, era strano. Era un freddo nero. Un freddo che calava per fermarsi silenziosamente nell’anima della gente fino colpirla in profondità. Là, dove fa male. Dove si addormenta il cervello e si rallenta persino il tango. Un freddo, che per fortuna, sono in pochi a conoscerlo.
Poco più di un anno prima, ovvero appena iniziato l’autunno del ‘76, i militari colpirono duramente la dignità, e non solo, degli argentini. Con la brutale forza delle armi avevano preso il 24 marzo di quell’anno il controllo del governo del Paese con l’obiettivo d’imporre politiche socioeconomiche in sintonia con i piani del neoliberismo del Fondo Monetario Internazionale e delle aziende transnazionali. Da allora il freddo della morte, del terrore, dell’impotenza, aveva invaso ogni angolo della vita quotidiana per eliminare ogni possibile resistenza popolare a quelle politiche neoliberiste. Si scrissero, in questo modo, le più tragiche pagine della storia contemporanea argentina, oggi nota in tutto il mondo.
Un anno dopo quel tragico inizio dell’autunno più lungo argentino, Buenos Aires già era tenebrosamente sorda, cieca, incapace di reagire davanti a migliaia di suoi figli scomparsi nel nulla. Per le strade, nelle case, in ogni angolo della città non si parlava per paura. Non ci si guardava per paura. Non si ascoltava per paura. La morte e i militari erano gli unici due soggetti che padroneggiavano su tutto l’esistente in quella lugubre città. I cervelli delle persone sembrava come se fossero addormentati per ipotermia in un assurdo tran-tran quotidiano dove tutto sembrava normale. Macabramente normale. Si cominciava a parlare, con sorriso schizofrenico, dell’imminente mondiale di calcio del ’78. Si festeggiava quell’evento. Gli affari dei militari e delle grandi imprese fiorirono a dismisura. Le aziende transazionali godevano, in quel cupo freddo sociale, una delle migliori primavere di infiniti e sproporzionati arricchimenti; arricchivano senza alcun disturbo e in piena fratellanza con i militari, ogni disfacimento del Paese era consentito pur di arraffare ricchezze.
In quell’assurda alienazione mentale, collettiva quasi inconscia di cui soffriva la popolazione, lo strano freddo autunnale aveva addormentato ogni senso umano, inclusa la dignità. In quell’habitat i Ford Falcon di colore verde oliva, ovvero le macchine in dotazione agli
«squadroni della morte», sfrecciavano liberamente per le strade di Buenos Aires con ignota destinazione. Portando dentro il grosso bagagliaio un altro bottino di guerra appena preso. Un’altra persona pronta alla tortura e alla scomparsa. Un altro desaparecido. E nessuno vedeva, nessuno parlava. Tutti si rifiutavano di ascoltare il frastuono di quelle potenti macchine costruite nello stabilimento argentino della Ford, nella località di General Pacheco, a pochi chilometri dalla periferia nord si Buenos Aires.
In quegli anni di dittatura militare erano in vigore leggi simili a quelle del ventennio fascista italiano. Una di queste era che non si potevano radunare più di tre persone in aree pubbliche, quanto meno in quella memorabile piazza già nota a numerose rivoluzioni sin dal 1810.
Per burlare questa legge, le coraggiose e ancora anonime donne dei fazzoletti bianchi cominciarono a girare, camminando silenziosamente con passo ritmato da tanta disperazione, attorno alla piramide centrale della piazza. I passanti le guardavano, i militari le insultavano quando non usavano le maniere forti, la violenza. Queste donne, che all’inizio appena superavano la decina, furono picchiate dai militari sotto gli sguardi impauriti o apatici dei passanti che sottovoce commentavano
«chissà cosa hanno fatto, meglio tenersi alla larga». Alcune di loro finirono nei Ford Falcon e della loro sorte nulla più si seppe. Queste donne chiedevano la sorte dei loro cari, dei loro figli scomparsi nel nulla.
In quel gelido autunno pervaso dall’impotenza prodotta dalla strategia del terrore scientificamente pianificata sulla popolazione, nessuno vedeva, nessuno ascoltava, nessuno parlava. Solo loro, queste donne, le mamme di quei figli scomparsi avevano visto. Avevano visto tutto quello che tutti avevano visto ma che nessuno vedeva. Avevano udito quello che tutti avevano udito, ma che nessuno udiva. Avevano detto quello che tutti si rifiutarono di dire. Furono solo loro, le donne, le uniche in quella società di
machos a riscaldare la temperatura di quel gelido autunno.
Hebe di Bonafini, mamma casalinga di due figli desaparecidos è una di loro. Una di queste donne che con tanta dignità e coraggio affrontarono, da sole, i militari. Lei, Hebe, alzò la voce in nome di tante mamme anonime che si trovavano nella stessa condizione. Instancabile in prima fila mettendo assieme alle altre mamme le uniche cose che aveva a disposizione, ovvero il coraggio, la voce e il proprio corpo. Non fu possibile fermarla, fermarle.
Oggi non è più casalinga, è una delle più prestigiose mamme riconosciuta mondialmente per la tenace resistenza alla dittatura e per la forte dignità. Assieme a migliaia di mamme che si aggregarono da tutto il Paese all’Associazione è stata protagonista della ricostruzione della dignità di quel tessuto sociale già fortemente smembrato. Poi, alla guida delle Madres è stata decisiva nello spostare l’asse delle sorti del Paese, ribaltandone l’ignominiosa situazione sociale. Gli argentini ripresero coraggio, cominciarono a vedere, a sentire e a dire. Hebe sempre in prima fila. I militari sono stati sconfitti, oggi non ci sono più. Hebe è lì, in piazza dal 30 aprile 1977 e al comando dell’Associazione sin dal 1979, anno della loro fondazione in piena dittatura post mondiale di calcio.

Hebe María Pastor de Bonafini – il suo nome completo – è stata ricevuta da quasi tutti i capi di Stato. Ha fatto conferenze in numerose università nei cinque Continenti. Su lei, e sulle Madres, si sono scritti saggi, racconti e poesie in quasi tutte le lingue. L’università di Bologna conferisce il 17 ottobre del 2007 all’Associazione de Las Madres de Plaza de Mayo una laurea
ad honorem in Padagogia, e a ritirarla è Hebe con una delegazione di Madres. Nel 1999 riceve dall’Unesco il riconoscimento per l’Educazione alla pace. Quei militari dal 1983 invece non ci sono più: chi non è morto per anzianità, è in galera a scontare la pena.
Las Madres de Plaza de Mayo hanno fondato un’università, la Universidad Popular de Las Madres, in pieno centro della città, davanti al Parlamento argentino, in Plaza Congreso. Hanno creato una biblioteca, un bar letterario, un proprio giornale, una radio. Sono protagoniste della costruzione di case nei quartieri più poveri del Paese. Partecipano alla vita sociale, a ogni lotta popolare, attive nelle fabbriche ricuperate dai lavoratori, come il caso dell’ex italiana di ceramiche Zanon o dell’Hotel Bauen a 5 stelle, costruito per il corrotto mondiale del ’78, e tante altre. Per queste instancabili lotte, sempre in prima fila, arrivano per loro da tutto il mondo adesioni, collaborazioni e finanziamenti.
Anche se oggi i militari non ci sono più, rimangono tante cose da fare. Ed Hebe, a 81 anni d’età è lì, in prima fila:
«Noi siamo state partorite dai nostri figli […] e quando loro ci hanno lasciato noi ci siamo trasformate da casalinghe a rivoluzionarie. Oggi ci sentiamo così, perché la rivoluzione si fa quando si riesce a trasformare la società. Noi sappiamo che si può. Si può perché l’unica battaglia che si perde è quella che si abbandona».
Hebe lo sa, lo sanno Las Madres, lo sanno gli argentini, che solo allora quel forte vento gelido, che soffia dall’Atlantico e che arriva in città dal sudest, tornerà ad essere caldamente normale. E Cambalache, il tango proibito dai militari, si continuerà a ballerà liberamente nelle piazze della città.

(*) Questo articolo era già uscito sulla bella rivista on line «El Ghibli».


Fonte:




sabato 27 aprile 2013

Chernobyl




Tratto da "Gaia - Il Pianeta che vive" di Mario Tozzi, 2005.

La notte del 25 Aprile 1986 esplose il reattore nucleare di Chernobyl, in Ucraina, al confine con la Bielorussia. L'esplosione avvenne in seguito a gravi errori di valutazione, in seguito ad una esercitazione di simulazione di un incidente.

Il video mostra le fasi dell'incidente, la diffusione della nube tossica nell'intero pianeta, l'evacuazione di intere città e gli effetti terribili delle radiazioni sui primi soccorritori e sui soldati che costruirono il "sarcofago". Le crude immagini di repertorio ci danno un'idea della tragedia che si è consumata, i cui effetti sono visibili ancora oggi. Un vasto territorio è ancora totalmente contaminato e c'è un incremento esponenziale di tumori e leucemie nelle popolazioni limitrofe. Attualmente i più colpiti sono i bambini.

Il filmato si conclude con gli ancora insoluti interrogativi circa l'uso dell'energia nucleare, primo fra tutti il problema delle scorie, che nessuno è mai riuscito a risolvere

venerdì 19 aprile 2013

Ciro Principessa


  



Ciro Principessa

di Guido Panvini 

Il 1979 fu un anno particolare per la città di Roma. La campagna politico - militare delle Brigate rosse, infatti, culminata con l'uccisione di Aldo Moro, accelerò il processo di disgregazione e di riflusso dei movimenti collettivi protagonisti della stagione del '77.
Se da un lato intorno alla gestione del sequestro si registrò una spaccatura all'interno dei gruppi armati, con l'uscita, ad esempio, dalla colonna romana delle Br di due esponenti di spicco come Valerio Morucci e Adriana Faranda, dall'altro molti gruppi di militanti accentuarono la loro militarizzazione ingrossando le fila del movimento di lotta armata.
Ne scaturì, di conseguenza, un incremento di azioni, in molti casi mortali, ai danni di esponenti delle forze dell'ordine, di avversari politici o attivisti dei partiti politici della maggioranza governativa.
La reazione repressiva delle istituzioni, non di rado punitiva, coinvolgendo l'intero arco dei movimenti collettivi e sociali, privò la società civile di un'importante spazio politico, contribuendo, in questo modo, ad esasperare la dialettica delle armi.
Allo stesso tempo, costantemente sottovalutato, se non tollerato, il terrorismo neofascista, proprio nella città di Roma, riprendeva slancio e guadagnava consensi soprattutto tra la base giovanile del Msi.
Se l'egemonia militare rimaneva appannaggio dei Nuclei armati rivoluzionari (Nar) guidati da Valerio Fioravanti, sul piano politico emergevano e si consolidavano i movimenti di Terza Posizione e "Costruiamo l'azione". Nonostante le indicazioni teoriche e le elaborazioni culturali espresse da queste formazioni, che miravano ad un'alleanza strategica di tutti i gruppi rivoluzionari in funzione antisistema, le azioni e gli omicidi contro i militanti di sinistra si inasprirono.
La tensione a Roma esplose con forza nei giorni successivi il primo anniversario dell'eccidio di Acca Larentia. Il 9 gennaio, ad esempio, un commando dei Nar assalì la sede dell'emittente Radio Città Futura, in via dei Marsi, nel popolare quartiere di San Lorenzo, lanciando molotov all'interno dei locali e ferendo con un mitra cinque donne che in quel momento stavano affrontando un dibattito alla radio. Nel pomeriggio esplosero due bombe: una all'interno della sezione del Pci di via del Boschetto e l'altra contro l'entrata secondaria della sede del quotidiano «Il Messaggero» in via dei Serviti.
Nella stessa sera un'azione di protesta contro una sezione Dc nel quartiere di Centocelle, effettuata da un gruppetto di neofascisti, finì in tragedia con l'uccisione di un giovane da parte delle forze dell'ordine che avevano aperto il fuoco contro gli assalitori.
Poco più tardi, nel quartiere Talenti, da una macchina in corsa furono sparati colpi di pistola contro un gruppo di ragazzi che sostavano davanti un bar, ritenuto luogo di ritrovo per gli attivisti di destra, che provocarono diversi feriti ed una vittima.
Il 19 aprile 1979 Claudio Minetti, estremista di destra e frequentatore del Msi di via Acca Larentia, entrò nella sede del Partito Comunista di via di Torpignattara, dove all'interno da tempo era stata allestita una piccola biblioteca, per chiedere un libro in prestito. Alla richiesta di esibire un documento di identità Claudio Minetti oppose il suo rifiuto e prese un libro da un tavolo scappando poi per la strada. Inseguito da due iscritti della sezione, il neofascista si voltò di scatto ferendo con un coltello Ciro Principessa, 23 anni, militante del Pci.
Arrestato dalla polizia dentro un bar dove si era rifugiato, Claudio Minetti risultò poi essere afflitto da gravi disturbi mentali. Questi, infatti, era figlio di Leda Pagliuca, a suo tempo convivente di Stefano Delle Chiaie, fanatica neofascista che viveva nel culto di Mussolini obbligando i suoi figli a condividere la sua fede. Per questo motivo, in passato, le autorità giudiziarie le avevano tolto l'affidamento di quattro figlie. Il fratello maggiore di Claudio Minetti, inoltre, si era suicidato due anni prima nel carcere di Regina Coeli mentre era in attesa di testimoniare al processo di Catanzaro per la strage di piazza Fontana. Per questa serie di motivi, la Corte d'Assise del Tribunale di Roma dichiarò non punibile Claudio Minetti perché ritenuto incapace di intendere e di volere e ne dispose il ricovero in un manicomio giudiziario per un periodo non inferiore ai dieci anni.
Ciro Principessa, le cui condizioni non sembrarono all'inizio essere molto gravi, morì in ospedale il 20 aprile.
Lo stesso giorno un ordigno ad alto potenziale scoppiò nella piazza del Campidoglio provocando gravi danni. L'attentato non provocò una strage per una casualità. Un'ora prima che scoppiasse la bomba, infatti, si era appena conclusa la seduta del consiglio comunale, mentre la piazza, solitamente affollata di turisti, era vuota a causa di un temporale. La bomba, composta da quattro chili e mezzo di tritolo e collocata sotto il portale del Palazzo Senatorio, al momento dell'esplosione ne divelse il portale, l'arcata e le colonne di sinistra, danneggiando poi il basamento del monumento equestre a Marco Aurelio.
Tra le tante telefonate che il giorno dopo rivendicarono l'attentato, una fece riferimento all'arresto di Claudio Minetti, il responsabile dell'omicidio di Ciro Principessa.
L'attentato al Campidoglio fu in seguito attribuito alla formazione neofascista "Movimento rivoluzionario popolare" (Mrp), nato dallo scioglimento del gruppo "Costruiamo l'azione". Con la stessa sigla vennero rivendicati un attentato contro il carcere di Regina Coeli il successivo 14 maggio e la mancata strage, per un difetto del timer che doveva innescare la bomba, di piazza Indipendenza, il 20 maggio, in occasione del raduno nazionale degli alpini a Roma.
Sul «Mrp» indagò, inoltre, Mario Amato, il giudice assassinato dai Nar il 23 giugno 1980.
Il Partito comunista organizzò in occasione dei funerali di Ciro Principessa una grande manifestazione. Il 24 aprile, infatti, fu allestita nella sezione del Pci di via Torpignattara una camera ardente, riempita per l'occasione di bandiere e drappi rossi. Nel tardo pomeriggio visitò la salma del ragazzo ucciso il segretario del partito Enrico Berlinguer. Poco più tardi partì dalla sezione un lungo corteo che passò per via Casilina e per via Prenestina fino ad arrivare a Porta Maggiore. Giunta nel quartiere di San Lorenzo la bara fu salutata da centinaia di persone che sui lati della strada cantavano "bandiera rossa". La manifestazione si sciolse poi in piazza del Verano dove fu allestito un palco per un comizio tenuto poco dopo dagli esponenti della Federazione romana del Pci.
Una lapide in via di Torpignattara ricorda oggi l'assassinio di Ciro Principessa.

Bibliografia:

M. Galleni, Rapporto sul terrorismo, Le stragi, gli attentati, le sigle, 1969 - 1980, Rizzoli, Milano 1981.
Venti anni di violenza politica in Italia, 1969 - 1988, Ricerca Isodarco, Università degli Studi di Roma "La Sapienza", Roma 1992.
Federazione Romana del Pci, La violenza eversiva a Roma negli anni 1978 - 1982, Le proposte per l'ordine democratico, suppl. al n. 1 - 1983 di «Democrazia e diritto», Roma 1983.

Quotidiani utilizzati:
«Paese Sera», del 20, 21 e 25/04/1979.
«Il Tempo», del 20, 21 e 25/04/1979.
«Il Messaggero», del 20, 21 e 25/04/1979.
«l'Unità», del 20, 21 e 25/04/1979.
«Il Corriere della Sera», del 20, 21 e 25/04/1979.


Fonte:

giovedì 11 aprile 2013

BAHRAIN: TORNA IL GP DI F1, CRESCE LA REPRESSIONE

giovedì 11 aprile 2013 05:05
La polizia di re Hamad bin Isa al Khalifa ha lanciato una campagna di arresti di oppositori in citta' e villaggi in anticipo sul GP di Formula Uno.



di Michele Giorgio
  Roma, 11 aprile 2013, Nena News - Yousef Al Muhafedha, del Centro del Bahrain per i Diritti Umani, parla in fretta, desidera riferire tutto ciò che ha registrato nelle ultime ore. «E' in corso un'ondata di arresti in tutto il Bahrain - esordisce rispondendo alle nostre domande - almeno 50 persone sono finite in manette in vari villaggi, le ultime 20 a Sitra. La polizia ha fatto irruzione in decine di case, durante la notte, per intimidire e lanciare avvertimenti prima del Gran Premio di Formula Uno. La retata prosegue mentre noi parliano al telefono».

Per il secondo anno consecutivo la monarchia assoluta di Re Hamad bin Issa al Khalifa fa di tutto per impedire che l'opposizione possa "turbare" lo svolgimento del Gran Premio di Sakhir, la vetrina del Bahrain. E per il secondo anno consecutivo il circo della Formula Uno, dalla Ferrari alla Red Bull, finge di non sapere che in Bahrain sono negati diritti fondamentali, che la repressione ha fatto molte decine di morti e che nelle carceri ci sono attivisti che hanno soltanto chiesto riforme e uguaglianza tra tutti i cittadini. E se nel 2012, anche se solo per qualche giorno, ci fu qualche esitazione prima del Gran Premio, quest'anno tutto tace.

«Lo sport è un'altra cosa» e non deve essere coinvolto in questioni politiche, commentò qualche pilota lo scorso anno. Sono rimaste scolpite nella memoria di molti le parole di Nico Hulkenberg, driver nel 2012 della "Force India". «Non è giusto, siamo qui solo per correre e certe cose non dovrebbero accadere», disse Hulkenberg dopo che quattro membri della sua scuderia erano rimasti coinvolti in scontri tra dimostranti e polizia. Il pilota avrebbe dovuto indirizzare le sue critiche nei confronti del patron della Formula Uno Bernie Ecclestone che non rinuncerebbe mai al Gp in Bahrain. Gli affari vengono prima di tutto, i diritti dei popoli oppressi molto dopo. E tacciono anche gli Stati Uniti che nel Bahrain hanno la base della loro V Flotta.

Eppure la situazione in questo piccolo arcipelago del Golfo resta drammatica a poco più di due anni dalle proteste di Piazza della Perla represse nel sangue dalla polizia del re, con l'aiuto di truppe saudite e di agenti speciali degli Emirati. A poco o a nulla è servito il «dialogo nazionale» avviato nei mesi scorsi dalla monarchia con la parte più moderata dell'opposizione. Anzi, sottolineano gli attivisti della rivolta più giovani, il dialogo si sta trasformando in una copertura per il regime di fronte all'opinione pubblica internazionale.

Le denunce fatte da Yousef Al Muhafedha hanno trovato una immediata conferma nel comunicato diffuso ieri da Human Rights Watch. «Questa nuova ondata di arresti e il modo in cui viene condotta sollevano nuovi interrogativi sulla reale intenzione delle autorità del Bahrain di procedere sulla strada delle riforme», ha scritto Sarah Leah Whitson, responsabile per il Medio Oriente di HRW. Dal primo aprile, aggiunge l'attivista dei diritti umani, la polizia ha effettuato 30 raid a Dar Khulaib, Shahrakan, Madinat, Hamad e Karzakkan, villaggi e cittadine situate a breve distanza dal circuito di Sakhir. E non possono passare inosservate anche le pesanti condanne al carcere inflitte nei confronti di minorenni, processati assieme agli adulti, come denuncia un altro importante centro per i diritti umani, Amnesty International. Il 4 aprile Ibrahim al-Moqdad, 15 anni, e Jehad Salman, 16 anni, sono stati condannati a 10 anni di carcere dall'Alta Corte di Manama con l'accusa di tentato omicidio e di aver dato fuoco ad un'automobile.

Restano nel frattempo in prigione tre noti attivisti dei diritti umani del Bahrain: Nabil Rajab, Abdulhadi al Khawaja e sua figlia Zainab al Khawaja. Quest'ultima, una blogger molto nota (@angryarabiya), ha osservato un lungo lungo sciopero della fame in cella, che ha interrotto tre giorni fa. Dal carcere Zainab di recente ha scritto una lettera sulla figura e l'impegno di Martin Luther King, suo ispiratore, rivolta in particolare agli Stati Uniti alleati di re Hamad. «Nella cella sovraffollata e sporca dove vivo, sento le parole di questo grande leader americano, la cui inflessibile dedizione alla moralità e la giustizia ne fecero il grande leader che era. Ammiro la sua saggezza e mi chiedo se anche il popolo degli Stati Uniti sia all'ascolto».



Fonte:

http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=70870&typeb=0&Bahrain-torna-il-GP-di-F1-cresce-la-repressione- 



11 aprile 1979: tre compagni autonomi muoiono a Thiene


Giovedì 11 Aprile 2013 07:17 
Verso le 17 dell’11 aprile 1979, a Thiene, in provincia di Vicenza, esplode un ordigno in un appartamento in via Vittorio Veneto 48.
11 aprile
Muoiono dilaniati dall’esplosione tre militanti dei Collettivi Politici Veneti, Maria Antonietta Berna (22 anni), Angelo Del Santo (24 anni) e Alberto Graziani (25 anni). L’esplosione è provocata dallo scoppio accidentale della pentola a pressione piena di polvere di mina, con cui stanno preparando un ordigno. In quei giorni ci furono decine di azioni e incendi in risposta all'arresto di centinaia di compagni del movimento comunista veneto e non solo avvenuto il 7 aprile dello stesso anno.
L’intestatario dell’appartamento, Lorenzo Bortoli, anch’egli militante dei CPV, viene arrestato insieme ad altri tredici militanti nell’inchiesta apertasi in seguito all'esplosione.
Lorenzo Bortoli morirà suicida in carcere il 19 giugno 1979. 
Il 12 aprile 1979 i tre giovani vengono ricordati in un volantino intitolato “Ci sono morti che pesano come piume e vite che pesano come montagne”. I tre militanti , dice il comunicato, “sono morti esprimendo la rabbia, l’odio, l’antagonismo di classe contro questo Stato, contro questa società fondata ed organizzata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. 
Il  13 aprile è il giorno dei funerali di Maria Antonietta Berna, sepolta a Thiene, e di Angelo Del Santo che sarà seppellito in una frazione vicina, a Chiuppano; qui la polizia ha militarizzato l’intera area, impendendo l’accesso al cimitero. Parecchie centinaia di giovani riescono comunque ad avvicinarsi alla chiesa utilizzando piccole strade che passano attraverso i campi, per dare l’ultimo saluto al militante morto. 
Il 14 aprile 1979 vengono celebrati a Sarcedo i funerali di Alberto Graziani. Parecchie centinaia di persone, dopo aver superato i posti di blocco posti dalle forze dell’ordine intorno alla città, lo salutano in silenzio a pugno chiuso.


Strage della Moby Prince. La nave americana c'era

Mercoledì 10 Aprile 2013 12:39



Ustica, Cermis, Livorno. Si chiama "Theresa", la nave militare statunitense che si allontana rapidamente dal luogo della collisione che provocò la morte di 140 persone. Le indagini ufficiali hanno fatto di tutto per non rivelarlo.

Ventidue anni fa, era il 10 aprile del 1991, nel porto di Livorno avveniva una devastante collisione tra la nave traghetto Moby Prince e la petroliera dell'Agip "Abruzzo".  Morirono 140 persone. Le indagini ufficiali seppellirono l'inchiesta. Molte fonti riferivano di navi militari statunitensi nel porto (vicino c'è la grande base militare Usa di Camp Darby).
Oggi l'Ansa riferisce quanto pubblichiamo qui di seguito:

"Il mistero della nave fantasma che abbandona la rada del porto di Livorno dopo la collisione tra la Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo, costata la vita a 140 persone a bordo del traghetto, sembra essere definitivamente svelato. Secondo una perizia condotta da esperti consultati dai figli del comandante del Moby Prince, la misteriosa Theresa che lascia traccia audio nelle registrazioni di quella notte è una delle navi militarizzate Usa che erano nella rada livornese. "Dalle nostre comparazioni - spiega Gabriele Bardazza, l'esperto nominato da Angelo Chessa, figlio del comandante della Moby Prince - si evince che Theresa è il Gallant 2, una delle navi militarizzate che quella notte erano impegnate nel trasporto di armi presso la base di Camp Darby.
Resta da capire il motivo per cui il comandante abbia ritenuto di non utilizzare via radio il proprio identificativo ma un nome in codice, come resta da spiegare il fatto che i periti del tribunale non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni per chiarire chi fosse Theresa, nonostante nel processo di questa nave fantasma si sia parlato a lungo".
Il lavoro di Bardazza e dei suoi collaboratori, di cui proprio oggi riferisce il Corriere della Sera, mette a frutto, grazie alle nuove tecnologie a disposizione, ciò che negli atti processuali era già indicato da anni. Come una enorme lente di ingrandimento utilizzata per scovare dettagli finora inesplorati e che potrebbero gettare nuova luce sul più grande disastro della marineria italiana, a cominciare, conclude Bardazza, "dal punto in cui si trovava alla fonda la petroliera e che le stesse carte processuali collocano nel triangolo vietato all'ancoraggio e alla pesca, dimostrando che il traghetto le è finito addosso non durante la navigazione in uscita dal porto ma durante una rotta di rientro".

Ultima modifica Mercoledì 10 Aprile 2013 12:50 

domenica 7 aprile 2013

OP ISRAEL 2.0: ATTACCATI CENTINAIA DI SITI ISRAELIANI

Sabato 06 Aprile 2013 23:56 

Attacchi Ddos, leaks di informazioni segrete e violazione di migliaia di account Facebook sionisti. Anonymous risponde così alla  violazione della tregua da parte di Israele dopo che in settimana Gaza è stata bombardata dagli F-16 israeliani.

op-israelAnnunciata un mese fa da rumors, tweet, post in rete ed anticipata dalla clamorosa azione ai danni del Mossad messa in atto dalle crew RedHack e Sector404, la seconda fase di #OpIsrael ha preso il via alle 16 di oggi, diverse ore prima che scoccasse l'ora X del count down (inizialmente prevista per la mezzanotte del 7 aprile).
 «Oggi è il primo giorno in cui molte cose cominceranno a cambiare. In un modo o nell'altro». È questo il messaggio (lanciato dall'account Twitter @Op_Israel) che ha dato via al walzer di tango down a cui sono stati sottoposti diversi network militari ed istituzionali di Tel Aviv. Un volume di fuoco intensissimo che fino a questo momento ha investito una quantità imprecisata di obiettivi: alcune fonti in rete parlano di 1300 siti defacciati. Altre, più caute, riportano numeri più bassi ma ugualmente significativi: sono almeno un centinaio, tra agenzie governative, banche e forze armate, i server finiti nel mirino. La lista degli obbiettivi è lunga: fra questi la Knesset, l'home page del primo ministro, quella della polizia  e del ministero delle infrastrutture nazionali.  Ma il vero piatto forte è un altro ovvero i 19000 account Facebook israeliani di cui le crew di hacker, almeno una ventina quelle coinvolte, hanno preso possesso: una ritorsione messa in atto come risposta alla recente chiusura di diversi profili di attivisti filo-palestinesi. Sono stati inoltre divulgati diversi leaks ottenuti in seguito a delle azioni di hacking: una di queste è quella del Latin Hack Team che ha violato i database del sito israelmilitary.com, il sito ufficiale di forniture militari dell'Israel Defence Force. Come risultato sono finiti on-line centinaia di numeri di carte di credito appartenenti a membri dell'esercito israeliano ed alcuni documenti secretati (la cui attendibilità non è però al momento dimostrata).
 L'account Twitter @Op_Israel è in continuo aggiornamento e si contano a decine i comunicati di rivendicazione che accompagnano ognuna di queste singole azioni. Il primo ad essere reso disponibile on-line è arrivato in forma di video: una press-release caricata su Youtube dove Anonymous ha spiegato le ragioni per cui ha interrotto la tregua, siglata il 21 novembre 2012 al termine dell'aggressione israeliana a Gaza (tregua a cui il network di hacktivisti si era fino a questo momento ufficialmente uniformato). Nel video si afferma che le ostilità nei confronti dello spazio digitale israeliano sono riprese a causa dell'atteggiamento di Tel Aviv verso il popolo palestinese: tra i motivi scatenanti, oltre alla violazione del cessate il fuoco di mercoledì notte (quando Gaza era stata nuovamente colpita dalle bombe degli F-16 con la stella di David), nel comunicato vengono citati anche le torture ed i maltrattamenti imposti ai prigionieri palestinesi nelle carceri sioniste, l'embargo su Gaza ed il moltiplicarsi degli insediamenti dei coloni nella West Bank.
 Questa prima fase di #OpIsrael 2.0, forse perché annunciata con largo anticipo, non ha però colto del tutto impreparati gli amministratori dei network governativi e militari israeliani i quali, pur limitandosi ad un atteggiamento di difesa passiva, sono riusciti a contenere i danni. In alcuni casi infatti i siti istituzionali colpiti sono stati ripristinati in pochi minuti. È ancora presto dunque per dire quale sarà il risultato di questa partita.


Fonte:
 

http://www.infoaut.org/index.php/blog/conflitti-globali/item/7400-opisrael-20-attaccati-centinaia-di-siti-israeliani 

7 aprile 1979: quando lo Stato si scatenò contro i movimenti

Dal blog di Paolo Persichetti, http://insorgenze.wordpress.com/ 

dicembre 21, 2010

Ogni volta che apre bocca Maurizio Gasparri ci ricorda che esiste il Cottolengo. Ma questo non è sempre un buon motivo per ignorare le sue sortite. La sua richiesta di scatenare contro il movimento “arresti preventivi”, l’accusa di “assassini potenziali” rivolta contro i manifestanti, danno voce in realtà a settori consistenti degli “apparati dello Stato” e pezzi di opinione pubblica reazionaria. I tentativi di dialogo con le forze di polizia sponsorizzati in questi giorni da alcuni giornali ed esponenti politici, come Veltroni, la ricerca di una mediazione con i manifestanti, mostrano tuttavia che negli apparati esistono linee diverse.
Liquidare l’offensiva repressiva lanciata dal presidente dei senatori Pdl, uno dei più servili maggiordomi del Berlusconismo che da ministro ebbe il compito di varare una riforma del sistema televisivo scritta dagli uffici studi di Mediaset, come un rigurgito fascista sarebbe un grave errore. Il nuovo “sette aprile” chiesto a gran voce dall’ex missino, fratello di un generale dell’Arma dei carabinieri, non fu uno strumento di repressione ripreso dal ventennio mussoliniano, ma un dispositivo di repressione giudiziario-poliziesco e politico-culturale, messo a punto dal partito comunista italiano, sostenuto con feroce coerenza dal giornale fondato e direto da Eugenio Scalfari. Il fatto che oggi sia un ex-post sempre fascista a reclamarlo chiama in causa gli eredi del Pci sparpagliati un po’ ovunque, nel Pd, nella Federazione della sinistra, in Sel o nell’Idv, alcuni persino nel Pdl. Se oggi chi milita in queste formazioni pensa che evocare il 7 aprile sia prova di fascismo, deve spiegarci perché allora venne congeniato quel modello di repressione dei movimenti e perché fino ad oggi non ne ha mai preso le distanze

 

Paolo Persichetti
Liberazione 22 dicembre 2010

Chi ha definito un rigurgito fascista la richiesta di un «nuovo 7 aprile» fatta da Maurizio Gasparri, cioè di «una vasta e decisa azione preventiva» da scatenare  contro i centri sociali ritenuti, a suo dire, i responsabili degli scontri avvenuti il 14 dicembre scorso a Roma, non ha detto una cosa giusta. Pietro Calogero, il pm di Padova che congeniò il teorema accusatorio firmando i primi 22 ordini di cattura che diedero via al blitz contro il gruppo dirigente dell’area dell’Autonomia operaia, tra cui Toni Negri, Franco Piperno e Oreste Scalzone, non era fascista. L’intera inchiesta, in realtà, fu preparata e supportata dal sostegno politico diretto del partito comunista, dall’azione di un suo dirigente locale, Severino Galante, dal lavoro riservato della sezione “Affari dello Stato” diretto da Ugo Pecchioli, dalla funzione di raccordo tra magistratura e sistema politico svolta da Luciano Violante. Membri del Pci erano alcuni dei testimoni chiave che consentirono di formulare la prima salva di accuse. In quegli anni il Pci dispiegò tutta la sua macchina organizzativa senza badare a sfumature per monitorare nei quartieri e nei posti di lavoro gli “estremisti” e i “sovversivi”, i cui nomi venivano poi affidati ai nuclei speciali del generale Dalla Chiesa. Addirittura intervenne sui giurati del processo di Torino contro il nucleo storico delle Br. Democristiano era invece Achille Gallucci, il giudice istruttore romano che lo stesso giorno spiccò altri mandati di cattura per «insurrezione armata contro i poteri dello Stato», avviando così il secondo troncone dell’inchiesta. Quell’episodio che molti giuristi, come Stefano Rodotà e Luigi Ferrajoli, continuano a ritenere una delle pietre miliari dell’emergenza giudiziaria che ha scardinato il sistema delle garanzie giuridiche avviando anche quella cultura della supplenza giudiziaria, senza la quale non avrebbe mai visto la luce “Mani pulite”, che aprì la strada al berlusconismo, nacque nel cuore della stagione del compromesso storico, della linea della fermezza, del consociativismo che annullava ogni differenza tra maggioranza e opposizione. Il Movimento sociale, partito nel quale militava all’epoca l’attuale presidente dei senatori del Pdl, era fuori dell’arco costituzionale. La legislazione speciale, l’introduzione delle carceri speciali, gli spregiudicati metodi d’indagine che permisero l’arresto dei militanti dell’Autonomia, votati anche con l’assenso dell’opposizione parlamentare, resero di gran lunga più repressivo il capitolo dei delitti politici presente nel codice penale elaborato per punire gli antifascisti da Alfredo Rocco, guardasigilli del regime mussoliniano. Il modello 7 aprile introdusse il ricorso al «rastrellamento giudiziario», cioè la contestazione di reati associativi di vecchio e nuovo conio senza l’individuazione di fatti circostanziati, la cui prova veniva rinviata nel tempo grazie ad una custodia preventiva allungata a dismisura. Di fatto l’arresto si trasformava in un vera e propria pena anticipata scontata prima della sentenza. In questo modo le accuse si fondavano sul principio della “tipologia d’autore”, ad essere contestata era l’identità e la storia politica dell’imputato. Scelta motivata all’epoca con la necessità “prosciugare l’acqua dove nuota il pesce” per difendere lo Stato dall’attacco dei gruppi armati: l’anno prima era stato rapito e ucciso dalle Br il presidente della Dc Aldo Moro, attorno al movimento del ’77 si era diffusa un’area insurrezionale, un’arborescenza di sigle che alimentava azioni armate ovunque mentre il conflitto sociale era giunto all’apice. Pochi mesi prima era stato ucciso Guido Rossa. Tuttavia l’introduzione di quello che fu un vero “stato di eccezione giudiziario” venne sempre negata dalle forze politiche, ciò spiega il rimosso e il tabù attuale. La sinistra non ha mai fatto i conti con quella scelta, anzi col passar delle svolte e delle sigle l’ha iscritta a pieno nel proprio patrimonio culturale ritrovandosi nella paradossale situazione che vede oggi un fascista di allora rivendicarne con estrema naturalezza l’impiego. E’ stata la sinistra, spalleggiata dal partito-giornale di Repubblica, a mettere in piedi il micidiale modello repressivo e l’arsenale giuridico rivendicati oggi contro i movimenti da un personaggio come Gasparri. Quanto basta per avviare una riflessione critica mai veramente affrontata.


Fonte:

http://insorgenze.wordpress.com/2010/12/21/7-aprile-1979-quando-lo-stato-si-scateno-contro-i-movimenti/

7 aprile 1944: gli assalti ai forni e le donne di Ponte di Ferro

Dal blog di Valentina Perniciaro, http://baruda.net/

Roma, tra il febbraio e l’aprile del 1944, è schiacciata dalla morsa della fame, è una città sfinita, murata dall’occupante nazista. È il momento peggiore della guerra: bombardamenti, attentati, rastrellamenti, rappresaglie, gli Alleati sono fermi ad Anzio, non vanno né avanti né indietro, gli uomini al fronte o prigionieri o nascosti o non se ne sa più niente; i figli e i vecchi da sfamare.
L’approvvigionamento di una città di quasi due milioni di abitanti come Roma si presenta soprattutto come un problema di trasporti, visto che i rifornimenti di viveri arrivano non solo dal Lazio, ma anche da regioni molto più lontane; se fino al gennaio 1944 gli alimenti, nonostante gli attacchi aerei alle linee ferroviarie, erano ancora trasportati con i treni merci, donne_nella_resistenzadopo lo sbarco alleato a Nettuno e l’aggravarsi della situazione per tutte le ferrovie dell’Italia centrale, i trasporti avvengono per mezzo di autocarri. Quotidianamente partono 100 autocarri per il rifornimento della città. Ma i viveri che arrivavano non sono comunque sufficienti, tanto che l’Ufficio alimentare dell’Amministrazione militare vede nella parziale evacuazione della città l’unica possibile “soluzione”, ma, prevedibilmente, il tentativo non viene mai fatto. Interi quartieri restano senza pane. Poveri e ricchi sono ugualmente costretti a ricorrere al mercato nero. I romani mangiano, quando ne trovano, carrube lesse, pane di vegetina, bucce di patate bollite; bruciano mobili d’arredamento per scaldarsi e cucinare. La città sopravvive sospesa in una atmosfera di terrore, fame e freddo.
La situazione economica alimentare va sempre peggiorando e la popolazione trae motivo di ulteriore pessimismo dalle recenti disposizioni circa l’aumento del prezzo del pane e la ritardata distribuzione di parte della già modesta razione di pasta. Si vorrebbe una energica e fattiva azione da parte delle autorità per arrestare la corsa al rialzo dei prezzi che, se favorisce l’ingorda speculazione dei commercianti e dei cosiddetti borsari neri, pregiudica ed esaspera i consumatori ed in special modo wlaresistenzatrasteverequelli appartenenti alle classi meno abbienti o a quelle costrette a vivere del reddito fisso.
A complicare ulteriormente una situazione già inquietante, da una parte gli Alleati, che mitragliavano i convogli di viveri diretti in città, dall’altra gli occupanti che sequestravano per il loro uso, ma soprattutto per una sorta di deontologia dell’occupazione, intere partite di generi alimentari. L’idea che i tedeschi tenessero tutti i depositi sequestrati per il loro uso e consumo, è molto diffusa.
Ulteriori problemi provoca un vertiginoso ma invisibile (perché clandestino, non ufficiale) aumento della popolazione: dai Castelli, da Genzano, da Albano, dalle campagne intorno ad Anzio e Nettuno, arrivano a Roma intere famiglie di disastrati che cercano alloggio nelle scuole, nelle caserme o nell’ala abbandonata di qualche ospedale, un incremento silenzioso che va ad accelerare un andamento già crescente della popolazione romana, prima del ventennio fascista. Si calcola che oltre 200.000 persone vivessero in alloggi di fortuna in condizioni inumane e senza lavoro. E trovare cibo diventa ancora più difficile.
Gli ospedali sono pieni di bambini denutriti, e si contano numerosi casi di piccoli deceduti per fame e malattie da denutrizione: forse più di trecento, una strage, altre vittime innocenti da inserire nell’elenco di atrocità commesse dai nazifascisti a Roma e in Italia.
Dopo l’attentato di via Rasella del 23 marzo, la rappresaglia tedesca non si ferma alla strage delle Fosse Ardeatine, ma vuole colpire il maggior numero di persone possibile. Così, per ordine diretto del generale Maeltzer, la razione di pane dei romani viene ridotta da 150 a 100 grammi al giorno. Oltretutto è pane nero, spesso ammuffito.
Ai primi di aprile del 1944, dopo il catastrofico e lungo inverno, le condizioni alimentari si fanno intollerabili portando allo stremo la popolazione. La situazione nel settore del pane peggiora in modo drammatico con l’approssimarsi del fronte. A metà aprile, a causa delle difficoltà dei trasporti e dei disordini creati dalla lotta partigiana, la distribuzione ufficiale subisce un’ulteriore diminuzione; a quel punto ci si rende conto che non solo circolano 50.000 carte per il pane falsificate, ma anche che ingenti quantitativi di farina sono stati venduti di contrabbando dagli organi addetti alla distribuzione.psiup
Protagoniste di un così oscuro periodo sono le donne che da sole, con ogni mezzo, con l’astuzia o la violenza, cercano di sopravvivere alle miserie della guerra. È così che avvengono i primi assalti ai forni, destinati a diventare sempre più frequenti; sono le donne spinte dal bisogno che li pensano e li organizzano spontaneamente anche se qualche volta c’è dietro l’aiuto e l’impulso dei gruppi femminili della Resistenza. Si passano parola, vanno all’assalto provviste di sporte per metterci dentro quel po’ che riusciranno a prendere, usano i figli come scudo; sono le donne che si organizzano per assalire i forni ove si panifica il pane bianco per fascisti e nazisti.
Gli assalti avvengono nei quartieri di Trionfale, Borgo Pio, Via Leone Quarto. A guidarle in questi quartieri sono le sorelle De Angelis, Maddalena Accorinti ed altre.
In via Leone IV, davanti alla sede della Delegazione rionale, scoppia una rabbiosa protesta contro la sospensione della distribuzione di patate e farina di latte. Nella stessa strada viene assaltato il forno De Acutis, ma qui c’è il consenso dello steso proprietario, che distribuito il pane e la farina, si dà alla clandestinità.
Sempre fra i Prati e il Trionfale, zona di piccola e media borghesia, avvengono assalti ai panifici in via Vespasiano, via Ottaviano e via Candia.
Il 1° aprile 1944, di fronte a un forno di via Tosti, nel quartiere Appio, una forte manifestazione di donne contro la riduzione della razione di pane, dà inizio ad una nuova e disperata serie di assalti ai forni.
“Sabato primo aprile, al forno Tosti, quartiere Appio, la fila era interminabile: le donne attendevano da più di due ore l’arrivo dell’ordine di distribuzione e non si2550_67020193277_618018277_2260848_380951_n capiva perché tardassero tanto ad aprire. Esasperate le donne protestavano ad alta voce, erano furibonde, e c’era tra loro chi temeva che non ci fossero neppure quei cento grammi per tutti. [] aveva cominciato una in prima fila in faccia ai militi [che vigilavano alla porta]: “Ci ho quattro creature che me se magnano puro a me se je porto sta crioletta de cento grammi! Ve volete da’ na mossa! Buffoni!”. Un milite la prese per il braccio e la portò fuori dalla fila, le donne cedettero che la volessero arrestare e cercarono di strapparla dalle mani della GNR: seguì un parapiglia, tutte strillavano, insultavano; poi d’improvviso, rotta la fila, si ammassarono tutte davanti alla porta del forno. La porta forzata cedette e tutte entrarono [] le donne trovarono, oltre al pane nero, anche sacchi di farina bianca, forse pronti per la panificazione per le alte gerarchie fasciste o per le truppe di occupazione tedesche”.
Nei giorni a seguire e per tutto il mese di aprile, furono attaccati camion carichi di pane, come a Borgo Pio dove la folla assale un camion, scortato da militi fascisti, che trasporta pane per una caserma. Tale è l’improvvisa e inaspettata irruenza delle assalitrici che i militi possono fare ben poco e si trovano il camion completamente saccheggiato. Altri assalti hanno lugo a forni in tutti i quartieri, costringendo i tedeschi a scortare ogni convoglio e a presidiare ogni punto di distribuzione.
L’episodio più tragico avviene all’Ostiense, al Ponte di Ferro. Il 7 aprile 1944 decine di persone si ritrovarono di fronte al mulino Tesei per chiedere pane e farina; si diceva che quel mulino producesse pane destinato ai militari tedeschi. Le donne dei quartieri limitrofi (Ostiense, Portuense e Garbatella) avevano scoperto che il forno panificava pane bianco e che probabilmente aveva grossi depositi di farina. La folla cominciò a reclamare il pane, i cancelli del forno furono sfondati e le donne riuscirono ad entrare. Il direttore del forno, forse d’accordo con quelle disperate, lasciò che entrassero e che si rifornissero di pane e farina, ma qualcuno avvertì la polizia tedesca che arrivò quando le donne erano ancora sul posto. A quel punto i militi fascisti presenti chiesero l’intervento delle SS tedesche, che bloccarono la strada, molte donne riuscirono a scappare, ma dieci di loro furono prese, afferrate di forza, portate sul ponte e lì fucilate in fila, contro la ringhiera. A monito della popolazione i tedeschi ne lasciano i cadaveri sulla spalletta del ponte fino alla mattina dopo quando alcuni lattonieri e sfasciacarrozze della zona vengono costretti a caricare le povere salme su di un camion. Da allora non si è mai saputo dove siano state portate e sepolte.
Le dieci vittime innocenti della furia nazi-fascista furono: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi, Silvia Loggreolo.
Durante un nuovo assalto, quello avvenuto il 2 maggio, all’indomani delle manifestazioni del giorno prima, una guardia della PAI (la Polizia Africa Italiana che funge da servizio d’ordine per conto del Governo fascista repubblicano), accorsa per sedare il tumulto uccide con una fucilata una donna del Tiburtino III, Caterina Martinelli, madre di sei figli.
Cade sul selciato con sei sfilatini nella borsa della spesa, una pagnotta stretta al petto, in braccio una bambina ancora lattante: stramazza a terra sopra la figlia che sopravvive ma che avrà poi la spina dorsale lesionata. Una specie di monumento alla madre affamata.
Il giorno dopo, sul marciapiede ancora insanguinato, un cartello antifascista ricorda la vittima. Quel cartello, subito fatto togliere dalle autorità, tornerà come lapide a Roma liberata.
Mario Socrate, partigiano gappista e poeta, così testimonia di quell’episodio: “… ci fu l’assalto al forno e uno della Pai sparò e uccise una donna. Allora noi facemmo una manifestazione, e io quel giorno stesso ho scritto la lapide e la mettemmo al punto dov’era ancora il sangue a terra”. Fu lui a scrivere le parole che si possone leggere ancora oggi nella lapide sulla facciata di una casa in via del Badile 16:
Il 2 maggio 1944 in questo luogo durante un assalto al forno per cercare il pane per i suoi figli venne uccisa dalla violenza fascista Caterina Martinelli «io non volevo che un po’ di pane per i miei bambini non potevo sentirli piangere tutti e sei insieme».

Fonti :



sabato 6 aprile 2013

Il centro storico dell'Aquila 4 anni dopo il terremoto


L'aquila (L'Aquila, Abruzzo ) - 5 Aprile 2013

http://www.youreporter.it/video_Il_centro_storico_dell_Aquila_4_anni_dopo_il_terremoto

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L'Aquila non è mai rinata. Tutto il centro storico e tutta la zona della città lungo via XX Settembre è quasi totalmente abbandonata. Gli edifici sono disabitati e quasi tutti ancora pericolanti. Servirebbero interventi molto corposi, ma la sensazione che si ha tornando 4 anni dopo è quella di una città che sta morendo. La gente sta abbandonando L'Aquila. Ci sono ancora 20mila persone che non possono far rientro nelle loro case. La zona rossa è stata ristretta ma è ancora in vigore in buona parte della città.

Fonte: