Perchè questo nome:

Credo che la verità vada urlata contro ogni indifferenza mediatica e delle coscienze. Perciò questo è uno spazio di controinformazione su tutto ciò che riguarda le lotte sociali. Questo blog è antisionista perchè antifascista. Informatevi per comprendere realmente e per resistere.

Donatella Quattrone


venerdì 29 marzo 2013

GIORNATA DELLA TERRA: CELEBRARE LA RESISTENZA E INTENSIFICARE IL BDS


Il 30 marzo, i palestinesi ricorderanno la Giornata della Terra, un giorno del 1976, quando le forze militari israeliane hanno sparato e ucciso sei giovani cittadini palestinesi di Israele. Questi coraggiosi giovani erano tra le migliaia che protestavano l’espropriazione di terra palestinese da parte del governo israeliano. Oggi, continuiamo a celebrare la resistenza palestinese all’espropriazione della terra, alla colonizzazione, all'occupazione e all'apartheid israeliane.
Trentasette anni dopo le prime manifestazioni per la Giornata della Terra, Israele continua l’espropriazione e la colonizzazione della terra palestinese. Israele continua a espandere i suoi insediamenti illegali nei Territori palestinesi occupati, costringendo i palestinesi a lasciare la loro terra. I palestinesi devono affrontare l’espropriazione e il trasferimento forzato anche all'interno di Israele.
Per i sostenitori internazionali della lotta palestinese per la libertà, la giustizia e l'uguaglianza, la Giornata della Terra è un'opportunità per sviluppare campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) contro Israele, in particolare le campagne contro il Fondo nazionale ebraico (JNF), le società agro-alimentari israeliane e le aziende operanti negli insediamenti israeliani illegali, i quali svolgono un ruolo fondamentale nel furto continuato di terra palestinese.
Il Comitato nazionale palestinese per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BNC) invita le persone di coscienza di tutto il mondo ad unirsi a noi nel commemorare la Giornata della Terra, sottolineando che la campagna BDS è una forma efficace di solidarietà con la lotta palestinese.
In un momento in cui Israele si trova ad affrontare livelli senza precedenti di pressione contro la sua colonizzazione continua della terra palestinese e sta rapidamente perdendo il sostegno internazionale da cui dipende, cerchiamo di lavorare insieme per intensificare i nostri sforzi collettivi per tenere responsabili Israele e i suoi sostenitori.

Comitato nazionale palestinese per il BDS

Fonte:


giovedì 28 marzo 2013

La strage di via Fracchia

giovedì 28 marzo 2013 01:23


Una pagina nera nel controverso capitolo della guerra al terrorismo: l'esecuzione nel sonno, sommaria, di tre brigatisti [Paola Staccioli]





di Paola Staccioli

Hanno il colore grigio scuro dell'inchiostro nella foto in bianco e nero le pozze di sangue che circondano i corpi. Rivoli carichi di orrore, incapaci di produrre parole, che seguono i cadaveri sul pavimento lungo il corridoio. Quattro, in fila. Uno solo è vestito, dormiva in un sacco a pelo nel salotto. Gli altri sono stati sorpresi nel letto. Scalzi, con slip e maglietta. Tre giovani uomini e una donna. Piombati direttamente dal sonno alla morte. Genova, 28 marzo 1980. Il massacro di Fracchia.

È notte fonda. I carabinieri irrompono nella base delle Brigate rosse. A decidere l'operazione è stato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Uno dalle maniere forti. Esperto nel lanciare messaggi di terrore agli oppositori. Come nel 1974, nell'assalto al carcere di Alessandria contro i detenuti in rivolta. Sette morti, il risultato. Due detenuti e cinque ostaggi. Nel 1980 ha in mano una pedina grossa. Patrizio Peci, dirigente della colonna torinese arrestato nel febbraio e subito passato dall'altra parte. Dalla Chiesa vuole ottenere il massimo da lui.

È un momento storico di inimicizie aperte e assolute. Il clima è pesante, lo scontro aspro da entrambe le parti. Nei mesi precedenti la colonna genovese ha sferrato un attacco durissimo contro le forze di polizia. Quattro carabinieri uccisi fra il novembre 1979 e il gennaio successivo. Dalla Chiesa vuole dare una risposta forte. Il delatore è disponibile. Indica al generale la base di via Fracchia 12, nel quartiere Oregina. Forse fa avere direttamente le chiavi. Un'ipotesi non confermata.

Una squadra di dieci uomini irrompe nell'appartamento nel cuore della notte. Urla, tonfi sordi, odore di polvere da sparo. Scaricano odio e piombo sui quattro corpi sorpresi nel sonno. Rimangono a terra Annamaria Ludmann, trentadue anni, nome di battaglia Cecilia, proprietaria della casa, Lorenzo Betassa (Antonio), Remo Panciarelli (Pasquale), Riccardo Dura (Roberto), identificato solo a distanza di una settimana in seguito a una telefonata dei suoi compagni. Il 30 marzo le Brigate Rosse fanno ritrovare un volantino in cui si onorano i compagni caduti. Trucidati dai mercenari di Dalla Chiesa. Per loro, come per molti altri operai, la scelta è stata precisa: combattere e vincere con la possibilità di morire; anziché subire e morire a poco a poco da servi e da strumenti usati da un pugno di sciacalli per accumulare profitti. [...] Proprio mentre ci tocca lo strazio della loro scomparsa e onoriamo la loro memoria, si rinsalda in noi la convinzione che non sono caduti invano come non sono morti invano tutti i compagni che per il comunismo hanno dato la vita. Alla fine niente resterà impunito.

 
Alla Fiat di Mirafiori, in un reparto dell'officina 76, compare uno striscione in onore ai compagni caduti a Genova.

Esecuzione sommaria, vendetta di Stato. Lo pensano i compagni degli uccisi, lo pensano molti giornalisti. Giuliano Zincone, direttore de «Il Lavoro», lo dice chiaramente, facendosi nemico Dalla Chiesa. Anche Giorgio Bocca, intervistando il generale, si convince che la durezza delle sue parole risuona come un avvertimento: «Arrendetevi, altrimenti sarete tutti sterminati». Conflitto a fuoco, si affrettano a dire i carabinieri, che per giorni sequestrano l'appartamento. Nell'operazione un solo militare, il maresciallo Rinaldo Benà, rimane ferito a un occhio. A colpirlo, secondo la versione ufficiale, sono i brigatisti. Fuoco amico, ipotizzano altre ricostruzioni.

Per undici giorni l'appartamento viene blindato, presidiato dai reparti speciali. In balia dei militari e della versione ufficiale. L'unica possibile. Perché dall'altra parte nessuno ha più voce. Hanno lasciato solo cadaveri. E fori di proiettili. Dappertutto. L'8 aprile ai giornalisti viene concessa una visita guidata da un ufficiale dei carabinieri. Uno alla volta, per tre minuti. Non basta a nascondere.

La testimonianza visiva dell'orrore viene occultata e appare sulla stampa solo ventiquattro anni dopo. Il «Corriere Mercantile» di Genova pubblica nel febbraio del 2004 alcune foto del dossier riservato redatto dai carabinieri della Sezione rilievi del Nucleo operativo di Genova. Una sessantina di immagini. Nella loro cruda drammaticità, quei corpi sdraiati accrescono i dubbi su una versione ufficiale a molti risultata poco credibile fin dall'inizio. Anche la scena della foto sembra opera di un regista. Ricostruita. Innaturale. Con una pistola o una bomba a mano ordinatamente adagiate accanto a tre dei cadaveri. Ma qualcosa non torna. Un particolare stonato. Le braccia dei tre brigatisti in posizione prona sono piegate all'altezza della tempia. Come fossero caduti mentre tenevano le mani intrecciate dietro la testa, nella posizione di chi si è arreso.

lunedì 25 marzo 2013

ISRAELE SGOMBERA ANCHE AHFAD YOUNIS

Centinaia di poliziotti la scorsa notte hanno evacuato con la forza il nuovo accampamento creato dai palestinesi nel corridoio E1 dove Israele intende costruire case per coloni.

 domenica 24 marzo 2013 08:29


della redazione


  Gerusalemme, 24 marzo 2013, Nena News - Nel cuore della notte, come previsto da molti, la polizia israeliana ha sgomberato con la forza Ahfad Younis l'ultimo degli "avamposti" creato dagli attivisti dei Comitati popolari palestinesi. Sono stati impiegati centinaia di poliziotti per evacuare l'accampamento di tende eretto dai palestinesi nel corridorio E1, all'ingresso orientale di Gerusalemme, dove già lo scorso gennaio, sulla collina opposta, avevano dato vita al villaggio di Bab al Shams, la "Porta del Sole", dal titolo del romanzo dello scrittore libanese Elias Khoury. Stando alle informazioni disponibili al momento, la scorsa notte ci sono stati alcuni contusi tra i circa 100 palestinesi che presidiavano in quel momento Ahfad Younis e cinque arrestati, tra i quali il deputato Mustafa Barghouti. Una cinquantina di palestinesi, fatti salire su di un autobus e sono stati portati in vari punti della Cisgiordania. Una donna, di cui non e' nota l'identita', e' stata arrestata "per aver aggredito un agente", ha comunicato il portavoce della polizia

Afhad Younis (il nipote di Younis, il protagonista del romanzo Bab al Shams) è nato su terre dei villaggi di El-Azzariya, Issawiya, Al-Tor, Anata e Abu Dis, un lembo di terra palestinese particolarmente delicato. Israele intende costruirvi (e' la cosiddetta "zona E1") migliaia di case per coloni. Se il progetto venisse realizzato, la Cisgiordania, all'altezza di Gerusalemme, verrebbe spezzata in due, rendendo impossibile (l'ipotetica) realizzazione di uno Stato palestinese con un territorio omogeneo.

L'iniziativa di Afhad Yunis è avvenuta in coincidenza con la visita del presidente americano Barack Obama in Israele, con l'obiettivo di attirare l'attenzione sulla situazione palestinese. Nena News



Fonte:

http://nena-news.globalist.it/Detail_News_Display?ID=56435&typeb=0&Israele-sgombera-anche-Ahfad-Younis

venerdì 22 marzo 2013

GAZA, PROTESTE CONTRO LE DICHIARAZIONI DI OBAMA SULLA PALESTINA


 



Rafah-InfoPal. Giovedì 21 marzo, nel sud della Striscia di Gaza, i palestinesi hanno dato fuoco ad un pupazzo raffigurante il presidente Usa, Barack Obama, esprimendo il proprio malcontento per la politica statunitense nei confronti della causa palestinese e le sue ultime dichiarazioni sull’appartenenza storica della Palestina al popolo ebraico.
Mentre Obama raggiungeva Ramallah per incontrare il presidente dell’Autorità palestinese (Anp) Mahmoud Abbas, al centro di Rafah, studenti delle scuole superiori davano fuoco ad una bambola di Obama.
Centinaia di studenti hanno risposto all’invito, lanciato dal movimento di resistenza islamico, Hamas, per protestare contro la visita di Obama e denunciare le politiche delle amministrazioni americane nei confronti della questione palestinese.
Durante la manifestazione, gli studenti hanno anche condannato le affermazioni di Obama, fatte durante la sua visita allo Stato ebraico, con le quali egli ha ribadito il sostegno alla sicurezza di Israele, ignorando i diritti del popolo palestinese, oggetto di continue violazioni e crimini.
Dal canto suo, lo studente Hafez al-Masri si è detto indignato dalle dichiarazioni di Obama, in cui ha affermato che la Palestina è la terra storica degli ebrei.
Ha dichiarato che le affermazioni del presidente Usa esprimono la chiara parzialità dell’amministrazione Usa, e dimostrano che la posizione di Obama, come dimostrano i fatti, non è cambiata e non cambierà mai.
Al-Masri ha sottolineato l’assurdità delle scommesse fatte sul governo Usa, o su qualsiasi altro, per raggiungere i diritti dei palestinesi, ribadendo l’attaccamento del popolo palestinese, con tutti i suoi segmenti, alla Palestina, dal fiume al mare (dal Giordano al Mediterraneo), una terra araba e islamica sulla quale l’occupazione israeliana non sarà mai riconosciuta.
Obama è arrivato mercoledì 20 marzo nello Stato ebraico, inaugurando una visita nella regione che include anche i territori gestiti dall’Anp e durerà tre giorni.
Ieri, al suo arrivo a Tel Aviv, Obama ha affermato che la sicurezza di Israele rappresenta una linea rossa, e che gli Usa non permetteranno a nessuno di minacciare la popolazione dello Stato ebraico. Ha inoltre dichiarato che la Palestina è la terra storica degli ebrei.
La Striscia di Gaza è stata teatro di una serie di manifestazioni di protesta contro la visita del presidente Usa, durante le quali, nelle strade sono stati distribuiti degli striscioni che portavano le scritte: “Obama, ospite indesiderato in tutta la Palestina”, e “Obama, non sei il benvenuto”.

© Agenzia stampa Infopal - www.infopal.it


Fonte:

http://www.infopal.it/gaza-proteste-contro-le-dichiarazioni-di-obama-sulla-palestina/

mercoledì 20 marzo 2013

20 marzo 2003, dieci anni fa le bombe su Baghdad

Lo scoppio della seconda guerra del Golfo visto con i versi di un militante internazionalista scomparso anche lui: Dino Frisullo.

mercoledì 20 marzo 2013 03:18






di Dino Frisullo*


Livide d'improvviso le luci di montagna.

Ferma e dolente la luce delle stelle.

Ammutoliti i richiami degli uccelli.

Alle quattro del mattino

la luna piena chiede silenzio al mondo.

Poggia l'orecchio al suolo e ascolta.

Le prime bombe su Baghdad

vibrano dalla terra nelle viscere..

Dopo ogni scoppio la lunga eco

e un milione di cuori di madri all'unisono

è il loro respiro affannoso

che l'Eufrate porta al mare come un grido.

Dorme Khawla la principessina

sulla corona di plastica preme un cuscino sua madre

si chiede se dovrà premere più forte

quando giungerà l'onda d'urto della bomba.

Dopo gli scoppi il tuono immenso

non è il mar rosso che s'innalza a spezzare la portaerei una ad una,

non è il deserto che si leva

a spazzare i blindati con fiato rovente di sabbia:

è il fragore di milioni di ruote

carri carretti motocicli in fuga

kurdi arabi povera gente stracci

danni correlati.

Nelle basi sibillano i video.

Sono limitati i computer dei signori della guerra.

Non registreranno il respiro il palpito il pianto.

Non avvertono il terrore e l'ira del mondo.

Non sentiranno aprirsi le acque del Mar Rosso. 


*Le prime bombe della Seconda guerra del Golfo caddero su Baghdad nella notte tra il 19 e il 20 marzo 2003. Cinque anni dopo venne calcolato che costò più di 500 miliardi di dollari per una strage di civili iracheni, soprattutto, almeno 650mila civili, dieci volte più dei 63mila militari iracheni uccisi e cento volte più dei 5-6mila tra soldati e contractors occidentali. Gli italiani caduti furono 36. Ricordiamo l'orrore di quella notte con i versi di Dino Frisullo.

Nato il 5/6/1952 e morto nel giorno del suo cinquantunesimo compleanno, Frisullo era nato in Puglia, vissuto tra Roma e Perugia. Militante della nuova sinistra prima in Avanguardia operaia, poi in Democrazia proletaria fino al suo epilogo.

Nel 1980-81 è in Irpinia durante il terremoto nell'attività di solidarietà e nelle lotte. Alla fine degli anni Ottanta a Roma, l'impatto con le lotte degli immigrati, l'esperienza della Pantanella, l'incontro con don Luigi Di Liegro, l'impegno con l'ancora esistente associazione Senzaconfine e il particolare legame con la comunità del Bangladesh, infine portavoce della disciolta Rete anti-razzista.

Ha lavorato a sostegno della prima intifada in Palestina attraverso strutture di cooperazione internazionale, in particolare attraverso l'associazione Al Ard. L'arrivo dei rappresentanti della lotta di liberazione kurda in Italia lo porta prima tra le fila dei sostenitori della causa kurda e delle rivendicazioni dei diritti del popolo negato in Turchia, poi in Turchia dove viene arrestato e processato. Inizialmente imputato per istigazione al separatismo, l'accusa viene poi "derubricata" in apologia di terrorismo per poterlo scarcerare ed espellere, con una sentenza ad un anno e mezzo di reclusione. Questa esperienza dopo 40 giorni di carcere e un processo, radicalizza il suo sostegno alla lotta kurda e lo spinge ad approfondire conoscenza e vicinanza. Tra i fondatori dell'Associazione nazionale "Azad per la libertà del popolo kurdo" ne è il portavoce fino all'ultimo.

Contemporaneamente, è fautore e sostenitore della presenza degli esuli kurdi a Roma, contribuendo al loro stanziamento nel Campo Boario e all'istituzione del Centro socio-culturale Ararat. Attivo e partecipe nei giorni della presenza di Abdullah Ocalan in Italia.

E' stato anche un giornalista militante, ha collaborato con il Manifesto e Liberazione e il settimanale Avvenimenti. Nell'estate del 2000 fu premiato per il racconto "Il giuramento", ispirato all'incendio del Serraino Vulpitta, centro di detenzione per immigrati in Sicilia.

Una raccolta dei suoi scritti è stata pubblicata dalle edizioni Alegre: "Con lo sguardo delle vittime. Guerre, migrazioni, solidarietà".



Fonte:

giovedì 14 marzo 2013

Costa ben poco in Italia bruciare Ion Cazacu


due articoli di Sabatino Annecchiarico (*)   

Il 14 marzo del 2000 veniva bruciato vivo Ion Cazacu (ingegnere rumeno che lavorava da operaio) nella località di Gallarate, in provincia di Varese (una delle più ricche dell’Italia): aveva preteso dal suo datore di lavoro Cosimo Iannece un trattamento dignitoso per il suo lavoro da piastrellista. Una richiesta che lo mettesse più vicino ai diritti già acquisiti dai lavoratori italiani.
Ion Cazacu, dopo un mese di atroci sofferenze dovute alle bruciature che coprivano quasi il 90 per cento del suo corpo, morì all’ospedale Gaslini di Genova.
A tre anni della sentenza, che aveva condannato Cosimo Iannece a 30 anni sia in primo che in secondo grado (con il rito abbreviato evitando così l’ergastolo) la Cassazione l’annulla per “carente motivazione”, da parte dei giudici, sulla effettiva volontà d’uccidere dell’imputato.
«Sono assolutamente sbalordita» afferma Florina Cazacu, figlia maggiore di Ion Cazacu: «non mi aspettavo una cosa simile. Non me lo aspettavo da loro: dalla giustizia. Affermano che non hanno avuto abbastanza prove per giudicare l’omicidio volontario. Non vorrei creare una polemica e intervenire nelle decisioni prese dai giudici: voglio credere che sappiano bene cosa hanno fatto. Ma mi sembra un po’ strano, e non vorrei essere fraintesa: se uno porta benzina a casa di mio padre, gliela versa addosso e con il proprio accendino gli dà fuoco, cos’altro serve per capire se c’è o non c’è un omicidio volontario? Ripeto, non vorrei che questa mia osservazione qualcuno la prendesse per il verso sbagliato. Per me, anche se non posso essere obiettiva in questa storia, mi sembra sufficiente la prova dei fatti. Comunque, i giudici hanno preso questa decisione e avranno le loro ragioni».
Cosa significa per voi familiari questa decisione della Cassazione?
«Che dovremmo cominciare tutto da capo, tornando a Milano. Vedo la mia mamma stanca e distrutta. Lei era convinta che tutto fosse finito. C’è un abbattimento anche psicologico e morale. Il fatto stesso di tornare a Milano, non le dà pace. Per noi è molto difficile questo nuovo passaggio. Vorrei che finisse subito tutto».
Florinda Cazacu, 21 anni, è ora studentessa al secondo anno del corso di laurea in Giurisprudenza in Romania. E’ poliglotta: parla inglese, francese, spagnolo, italiano e certamente rumeno. E’ nata a Ràmnich Vàlcea (Romania) in un paese di 120.000 abitanti ma oggi vive in Italia con un permesso di soggiorno “umanitario” e finanzia da sé i suoi studi. Non esclude la possibilità di restare a vivere in Italia, anche se afferma che ancora è troppo presto per decidere.
«Noi, gli extra-comunitari, così come veniamo chiamati, cerchiamo un futuro migliore, più brillante per poter vivere in modo sereno e finire la giornata senza l’incubo di cosa mettere sul tavolo il giorno successivo».
Lei ritiene che in Italia sia possibile trovare questa vita migliore?
«Almeno lo spero, non posso dire che sono sicura, ma lo desidero, lo sogno. Dobbiamo provare e poi vedremo che conclusioni tirare».
Suo padre migrò per l’Italia quando lei aveva appena 14 anni. Di lui cosa ricorda?
«Quando lo ho visto al mattino partire con le valigie sono rimasta molto triste. Ricordo ancora le parole che mi disse: “non essere triste, il tuo papà tornerà presto”. Il primo anno mi è mancato tanto e quando è tornato per la prima volta ero così felice che mi sono dimenticata della mia sofferenza quando era partito. Sentivo la gioia di quello che faceva, anche senza la sua vicinanza. Ero felice quando mi portava regali o semplicemente quando ci telefonava. Sapevo che lui non era venuto in Italia per il desiderio di conoscere un altro Paese. Lui l’aveva fatto per necessità. Aveva l’obbligo di portare avanti una famiglia. Per farci studiare, per vestirci, darci da mangiare».
Qual era l’immagine che lei aveva di quest’Italia?
«Quando mio padre ci telefonava dall’Italia mi credevo immersa in una favola per tutto quello che raccontava. E sognavo che un giorno anche noi lo avremmo raggiunto. Immaginavo l’Italia come un grande sole e credevo che il mondo fosse tutto rosa. Scoprii dopo che fra sogno e realtà, le cose erano e sono molto diverse. Che la vita non era così facile. Che si deve sempre lottare per andare avanti».
Qual è la difficoltà maggiore che ha trovato in Italia?
«Quando spiego a qualcuno che sono rumena, noto che certe persone fanno un passo indietro e mi sento guardata dai piedi alla testa. Sento una sensazione strana, come dei brividi. Questa è stata una delle difficoltà maggiori che ho vissuto. Personalmente potrei dire che sono americana o di un’altra nazione, per non sentirmi male. Ma io non provo vergogna di essere rumena. E lo dico anche se sento quella strana sensazione quando le persone fanno gesti come di distacco. Per fortuna non tutti sono così. Mi sono fatta amici e ho trovato persone con un cuore grande. Poi c’è una differenza tra quel mondo, il mio Paese e questo mondo. Noi siamo ancora tradizionalisti. In Romania ho vissuto cose che ancora qui non ho visto: una vita sociale più all’aperto, in piazza, per le strade. A fine anno si esce in strada per festeggiare, magari per bere un bicchiere di vino assieme a uno sconosciuto che come te festeggia. Questa stessa cosa abbiamo provato di riviverla con i miei qui: ma è stato impossibile. Qui quando ci hanno visti per strada sono scappati. Quasi come se avessero paura di noi. Non so perché: è una strana cosa. Forse noi siamo più comunicativi. Questo è uno dei motivi per i quali mi manca il mio Paese. E mi vien voglia di ritornare. Mi manca la Romania e mi manca il tempo di quando ero bambina assieme a mio padre».
Un’immensa tristezza, vero?
«Avevo 17 anni quando mi hanno tolto mio padre e io ho dovuto maturare in fretta. Ho dovuto fare la figlia e la mamma allo stesso tempo. Questa maturità mi ha portato ad avere una visione della vita che non possedevo. E questo è duro. Sento che ho una ferita che si chiuderà sì, ma lascerà per sempre la cicatrice. Se dovessi fare una fotografia di me, direi così: ho lasciato prematuramente quella bambina che credeva la vita fosse facile e ha dovuto imparare tutto in fretta e per forza. Mi hanno costretto a diventare adulta molto prima del tempo. Per questo c’è molta tristezza».
Ha un messaggio per gli italiani?
«Direi loro di lasciare tutto quell’odio che si trova in questo mondo e che cerchino di stare bene con sé stessi. Poi di non fare tanta differenza tra loro e gli extra-comunitari, come sempre ci chiamano. Di considerare che tutti noi siamo partiti non per piacere, per divertimento. Siamo stati costretti a partire.. Nessuno ama lasciare la propria gente, la propria cultura, la propria terra. Non è facile venire a vivere in un mondo che si vede strano, stranissimo».

Ma c’è qualcosa in particolare che chiederebbe agli italiani?
«Chiederei loro di offrirci almeno la possibilità dell’amicizia. Almeno questo. L’amicizia. E soprattutto di considerarci come persone. Persone come sono loro. Nient’altro».
E avrebbe invece un messaggio per i suoi connazionali che vorranno o dovranno venire in Italia?
«La prima cosa che direi è: la vita qui non è così facile come si pensa dalle nostre parti. Cercherei in questo senso di prepararli un po’ a quello che troveranno. Vorrei aiutarli a capire che da queste parti non è come la favola che ci fanno vedere. Li avvertirei che il faccia a faccia con questa realtà a volte può portare grandi delusioni».
Lei, che oltretutto studia giurisprudenza, cosa pensa della legislazione italiana con riferimento all’immigrazione?
«Non so cosa pensare, solo posso dire che quando ho dovuto fare il permesso di soggiorno ho sentito la legge molto pesante. Comunque, vorrei non affrontare questo argomento».
Lei ha fatto notare più volte che siete chiamati extra-comunitari. Perché questa sottolineatura?
«Non mi piace questa parola. Quando la usano ho l’impressione che ci dividano. Sento che quando ci dicono extra-comunitari mettono da una parte il bene e dall’altra il male, il brutto, il cattivo. E’ vero che ci sono persone che arrivano in Italia e fanno danni, ma non si può giudicare un’intera popolazione per quello che ha commesso un singolo».
Con quale parola la sostituirebbe?
«Non so. Per me basta dire che uno è rumeno, o meglio un immigrante. Non extra-comunitario. Credo che a nessuno possa piacere essere chiamato extra-comunitario. Non mi vergogno di essere rumena o del mio nome, perché allora chiamarmi extra-comunitaria? Non lo capisco».
Due parole su Cosimo Iannece le vuol dire?
«Mi spiace per le sue figlie che non hanno colpa. Mi dispiace per loro che sono ancora piccole: credo che cresceranno in una società che tenderà a emarginarle per il passato del padre. Però avranno la possibilità in un domani di “saldare i conti” con il padre. Magari quando uscirà dalla galera. Io questa possibilità non l’avrò mai. Quanto al padre, Cosimo Iannece, sarebbe stato sufficiente per me e per noi che lui riconoscesse i fatti. Non negandoli e macchiando la memoria di mio padre. Il ricordo di lui è l’unica cosa che ci hanno lasciato. E questa memoria non la cancelleremo né permetteremo che venga macchiata».
Tornando al recente annullamento della sentenza, può accadere secondo lei che Cosimo Iannece sia scarcerato? E in questo caso vi sentirete sconfitte?
«Non credo che accada. Ma se così fosse, né mia madre né mia sorella e neppure io ci sentiremo sconfitte. Continueremo ad andare avanti. L’unica sconfitta in quel caso sarà la giustizia italiana».


Varese – «In Italia non so dove si trovi la giustizia» sono le parole di Nicoleta Cazacu, vedova di Ion Cazacu, ingegnere rumeno che lavorava da operaio piastrellista nella ricca Gallarate e fu bruciato vivo dal suo datore di lavoro Cosimo Iannece il 14 marzo 2000 per aver chiesto di essere messo in regola con il suo lavoro. Ion morì un mese dopo, il 14 aprile, dopo atroci sofferenze per le ustioni che coprivano quasi il 90 per cento del corpo e Iannece fu condannato a 30 anni sia in primo che in secondo grado (con il rito abbreviato per evitare l’ergastolo).

Nel maggio 2003 la Cassazione ha annullato la sentenza per «carente motivazione» sull’effettiva volontà di uccidere dell’imputato, e il 13 novembre dello stesso anno, davanti alla Corte d’Assise d’appello di Milano, si è aperto il nuovo processo a Cosimo Iannece concluso poi con la pena dimezzata, da 30 a 16 anni. E’ stata infatti accolta la tesi della difesa dell’omicidio senza l’aggravante dei motivi abietti. «In quel processo hanno cambiato anche i capi d’accusa, io e le mie figlie siamo rimaste sconvolte e deluse dalla giustizia italiana» dice amareggiata Nicoleta.

Una giustizia sconvolgente e deludente che emette una sentenza «grave dal punto di vista politico per il messaggio che lancia» commenta l’avvocato Ugo Giannangeli, parte civile di una delle figlie di Cazacu. Grave anche per l’indifferenza della maggior parte della popolazione italiana che permette che questo omicidio, quasi dimenticato, entri nell’immaginario collettivo come un episodio di ordinaria e quasi quotidiana criminalità, invece che un crimine da Medioevo. «Una parte della gente lo sa e fa finta di non saperlo. Pensa: se non è capitato a me, va bene così» continua Nicoletta Cazacu, «altre persone non lo sanno, ma tutte hanno qualcosa in comune: l’indifferenza. Quell’indifferenza che uccide e uccide soprattutto noi stessi».

E ora siamo in un nuovo capitolo della storia processuale. Giovedì prossimo 7 ottobre a Roma si apre l’udienza per il ricorso in Cassazione chiesto dal Procuratore generale di Milano. Potrebbe essere l’occasione per rendere giustizia a Ion e alla sua famiglia, dopo che a ogni passaggio procedurale la posizione di Iannece migliorava. Nicoleta è diventata scettica «Non mi aspetto molto. Spero che qualcuno faccia rispettare i valori della parola giustizia in questo Paese. Non mi aspetto molto, soprattutto perché anche gli avvocati di Iannece hanno presentato ricorso: a quanto pare ancora non sono soddisfatti dalla sentenza dello scorso autunno. Da quando l’ho saputo mi chiedo giorno e notte se gli avvocati otterranno la scarcerazione di questo criminale. Iannece continua a sostenere che è condannato ingiustamente perché mio marito voleva toglierli il lavoro: una storia montata apposta per far passare quel delitto come una guerra fra poveri, distraendo dalla verità dei fatti, insomma facendo passare la tesi che l’imputato si è visto costretto a difendersi. A questo punto lui si ritiene una vittima della società e della politica. Dice che è stato tradito persino dai suoi precedenti avvocati. Per questo motivo non mi resta che sperare». Sperare in un filo di giustizia italiana che fa fatica trovare Nicoleta assieme alle sue figlie Alina e Florina. «Non abbiamo superato lo choc dello scorso novembre. Non vogliamo parlarne, non ci diciamo le nostre paure per non peggiorare la fragile situazione emotiva che viviamo. Aspettiamo l’udienza del 7 ottobre».

Così Nicoleta nell’instancabile ricerca di quel filo di giustizia smarrito prova tutte le strade possibile, rivolgendosi con una lettera al Presidente della Repubblica Ciampi, per ricordare che «la legge dovrebbe essere uguale per tutti e una società civile e democratica è fondata su quei valori dei quali Lei è garante».

(*) Questi due articoli furono pubblicati sull’agenzia Migranews. Il primo il 29 maggio 2003 con il titolo «Jon Cazacu, bruciato per la seconda volta», il secondo il 5 ottobre 2004 era intitolato «Jon Cazacu e l’attesa di quel filo di giustizia italiana». I grandi media italiani parlarono poco o nulla di questi sviluppi giudiziari. Da allora cosa è successo? Se in rete cercate Ion (o Jon) Cazacu scoprirete che nel marzo 2010 il congresso della Cgil di Varese è stato dedicato alla sua memoria o che nel 2012 la band italiana «Il teatro degli orrori» ha scritto una canzone per lui. Notizie significative ma sulla vicenda giudiziaria tutto tace (ovviamente se qualcuna/o che legge ha altre notizie si faccia sentire). Purtroppo quella di Cazacu non è una storia isolata: quando una persona straniera è vittima di italiani quasi tutti i media si zittiscono mentre la Lega Nord (e non solo) esprime solidarietà… a prescindere. Come sempre: delitti di serie A e delitti di serie B, dipende da dove si nasce. Del resto un “degno” ministro dell’Italia senza vergogna ha da pochissime ore sottratto a un regolare processo (per l’uccisione di pescatori indiani) i due marò italiani che anche Monti e il presidente Napolitano avevano ricevuto con tutti gli onori. Sono italiani (e per di più soldati) certamente innocenti, prima del processo e da sottrarre ai giudici in spregio di ogni accordo e “parola data”. E’ l’Italia che dimentica i suoi orrori e finge non siano avvenuti, regalando un monumento (ad Affile) persino al boia Graziani. Tutti «brava gente», sempre.


Fonte:

martedì 5 marzo 2013

PALESTINA. LA MATITA PERICOLOSA DI MOHAMMAD SABA'ANEH

 
Un vignettista palestinese viene arrestato senza ragioni apparenti: tra accuse sconosciute e divieto di assisterlo per i suoi avvocati, per lui si profila lo stesso destino dei tanti prigionieri detenuti nelle carceri israeliane. Questa volta, in solidarietà, si mobilitano le ‘matite’ che hanno disegnato le rivoluzioni arabe. 

di Maria Letizia Perugini

Mohammad Saba'aneh ha 32 anni. È un vignettista palestinese, disegna per il giornale al-Hayat al-Jadida e lavora per il dipartimento di relazioni pubbliche dell’Università Araba Americana (AAU) di Jenin.
Il 16 febbraio scorso stava tornando nel suo paese dopo quattro giorni passati ad Amman per conto dell’AAU. Il suo viaggio, però, è finito al check point del ponte di Allenby dove, fermato dalle autorità israeliane, è stato arrestato e trasferito al centro di detenzione di Jalameh (prigione di Kishon, a nord di Tel Aviv). 
Da qui inizia il suo calvario.
Dopo l’arresto l’interrogatorio, senza che nessuna accusa fosse stata formalizzata nei suoi confronti. Negato anche l’incontro con gli avvocati. 
Nei giorni seguenti le notizie che arrivano sono poche e frammentarie, perchè dal 16 febbraio nessuno ha potuto incontrarlo.
Mohammad sarabbe comparso davanti a una Corte già due volte. Il 20 febbraio il suo fermo è stato prolungato di 9 giorni e il 28 febbraio è stato confermato: dovrà restare in carcere per ulteriori indagini. 
Gli ultimi aggiornamenti arrivano dal Committee to Protect Journalists (CPJ), ma non danno molta speranza né forniscono notizie più chiare: gli avvocati di Mohammad hanno fatto appello contro il prolungamento della detenzione e chiedono ancora di poter incontrare il proprio assistito, che intanto sarebbe stato trasferito nel carcere di Ashkelon. 
Le ragioni dell’arresto restano oscure. Ad avere infastidito le autorità israeliane, probabilmente, le sue vignette.
Profetica quella che ha scelto di intitolare 'Sognando la libertà', tra le ultime realizzate, in cui è rappresentato un ragazzo che - dietro le sbarre di una prigione e con una palla al piede - proietta l’ombra di una colomba con le ali spiegate intrecciando le mani verso un cono di luce. 
Le autorità, per il momento, hanno giustificato l’arresto con la necessità di condurre indagini su presunti servizi forniti da Mohammad a “organizzazioni ostili”. Ma non esistono accuse formali. 
Un copione che si ripete. Una nuova detenzione amministrativa, un’altra persona finita in carcere senza accuse e senza speranza di tornare presto in libertà.
Perché quando si viene arrestati dalle autorità israeliane, il più delle volte, non è dato sapere il motivo: ‘ragioni di sicurezza’ impongono generalmente la segretezza sui capi d’accusa.
È così che i più elementari diritti umani vengono calpestati: è successo anche ad Arafat Jaradat, arrestato per aver preso parte ad alcune manifestazioni e sottoposto ad interrogatorio da parte dei servizi segreti per una settimana nel carcere di Megiddo.
Solo che lui, in prigione, ha trovato la morte.
Sopraggiunta proprio nelle stesse ore in cui Mohammad vedeva la sua pena prolungata, in un intreccio che rende i destini dei due giovani terribilmente simili.  
All’indomani del decesso di Arafat, per ragioni ancora da chiarire, la famiglia di Mohammad ha riversato tutta la sua angoscia in un comunicato rivolto alla comunità internazionale, per chiedere di non essere lasciata sola davanti al muro di gomma delle autorità israeliane. 
Chiede pressioni internazionali, perché solo così può sperare di rivedere Mohammad vivo e in tempi ragionevoli. Solo in questo modo, forse, sarà possibile evitare l’ennesima vittima di una pratica – quella della ‘detenzione amministrativa’ - che da Israele non accenna ad essere abbandonata. 
Intanto, mentre si consumava il destino di Mohammad, i prigionieri palestinesi iniziavano un nuovo sciopero della fame per denunciare la morte di Jaradat: perché non passasse inosservata, e la loro condizione di condannati senza accusa a una pena indefinita non venisse ignorata. 
Lo scorso anno le proteste contro il regime di detenzione amministrativa erano state imponenti, e lo sciopero della fame avviato da alcuni prigionieri politici palestinesi aveva finito per coinvolgere oltre 2000 detenuti. 
Allora la mobilitazione aveva portato ad un accordo, secondo il quale Israele avrebbe accettato di non rinnovare gli ordini di arresto preventivo a meno che l’intelligence non avesse presentato nuove prove significative. Queste promesse, però, sono rimaste lettera morta.
Le detenzioni amministrative sono state riconfermate e continuano ad essere emesse.
Così come sono ancora in corso gli scioperi della fame: pochi giorni fa Human Rights Watch riportava le tragiche condizioni in cui versano Samer Issawi e Ayman Sharawna, in carcere dall’inizio del 2012 e ormai a rischio di sopravvivenza. 

 
 
Le basi (il)legali della detenzione amministrativa

Il regime di detenzione amministrativa è un retaggio del mandato britannico, le cui basi giuridiche oggi sono rintracciabili in tre porzioni della legislazione israeliana, applicabili nelle diverse zone dei Territori occupati.
Per quanto riguarda la Striscia di Gaza viene applicato un provvedimento che riguarda l’arresto dei “combattenti illegittimi”, secondo il quale sono considerati tali tutti coloro “che hanno preso parte ad attività ostili contro lo Stato di Israele”.
La legge è in vigore dal 2005, data del ritiro degli insediamenti israeliani da Gaza, per colmare il ‘vuoto’ creato dal decadimento della legislazione militare valida fino a quel momento. 
Per quanto riguarda il territorio israeliano viene invece applicata la “normativa di emergenza” del 1979, e in particolare il capitolo relativo agli arresti, da applicarsi solo quando viene dichiarato lo “stato di emergenza”. Che, però, in Israele è in vigore sin dalla sua fondazione. 
Ad oggi, la maggior parte delle detenzioni amministrative avviene in Cisgiordania, con l’applicazione degli articoli 284-294 dell’Ordine militare n.1651 riguardante le disposizioni di sicurezza, parte della legislazione militare a cui sono sottoposti i Territori occupati. 
Lo schema di tutti questi provvedimenti è simile: gli arresti possono essere effettuati a discrezione delle autorità se ritengono che sussistano “imperativi motivi di sicurezza”. Tutta la procedura è fondata su “ragionevoli basi” valutate di volta in volta dal comando militare, ma tra le condizioni per l’arresto non si parla mai della necessità di produrre “prove”.
Anzi, la sezione dell’ordine che le prende in esame sottolinea solo che il giudice può decidere di derogare al sistema che ne prevede la presentazione se ritiene che questo possa giovare al procedimento.
A sua discrezione anche la decisione, laddove presenti, di renderle note all’imputato o ai suoi legali. L’appello riguardo le decisioni del giudice, inoltre, deve essere presentato davanti a una Corte militare.
La detenzione amministrativa, sulla carta, non potrebbe eccedere i 6 mesi di durata. Ma non esistono limiti reali al rinnovo di questo periodo, che può essere esteso in modo indefinito. Una pratica che viola la legislazione internazionale, sia in termini di diritti umani che umanitari, e da più parti denunciata. 
Perché se a livello internazionale ne è prevista l’esistenza, si tratta comunque di una ‘misura eccezionale’ che dovrebbe essere applicata seguendo canoni di legalità molto stringenti. E non è questo il caso di Israele.
Secondo l’analisi dell’organizzazione israeliana B’Tselem, infatti, l’uso che ne viene fatto è estremamente estensivo: una routine, insomma, capace di produrre centinaia di casi ogni anno.
Dovrebbe inoltre trattarsi di una pratica sussidiaria, da utilizzare in ultima istanza, e non un’alternativa più veloce e ‘pratica’ al processo penale, soprattutto nei casi in cui le prove a carico dell’imputato siano poche o inesistenti. La loro assenza, riscontrata nella maggioranza dei casi, implica l’impossibilità per i detenuti di difendersi: non essendoci accuse pubbliche non è possibile costruire una difesa efficace. 
È infine la vaghezza della formula utilizzata di “attentato alla sicurezza della nazione” a rendere estremamente ampio il campo della sua applicazione: le manifestazioni settimanali nonviolente che si svolgono in tutti i Territori il venerdì, ad esempio, vengono fatte rientrare in questa fattispecie di reato. 
 
La mobilitazione per Mohammad Saba'aneh: matite all’attacco

Le proteste e gli appelli che da mesi le associazioni internazionali per i diritti umani stanno portando avanti contro la detenzione amministrativa sono rimasti inascoltati. Ma ad ogni nuovo arresto la mobilitazione serra le fila.
In queste settimane, a muoversi è la comunità dei fumettisti arabi.
I primi a dare notizia dell’arresto di Saba'aneh sono stati i vignettisti del blog Cartoonmovement con il quale Mohammad collabora, che stanno seguendo l’evolvere della situazione, pubblicando quotidianamente vignette che denunciano la vicenda.
Ma anche a livello internazionale l’appoggio arriva da più parti.
Da qualche giorno si è mobilitato il collettivo di disegnatori tunisini Yakayaka, che sta postando disegni dedicati alla storia di Mohammad, e che ha aderito alla campagna del Consiglio internazionale per i Diritti umani, che invita a inviare un appello direttamente alle autorità israeliane e ai responsabili delle Nazioni Unite per i diritti dell’uomo affinché prendano immediati provvedimenti per la liberazione del giovane. 
E poi ci sono le ong che si occupano di libertà di stampa: Reporters Sans Frontières e il CPJ stanno seguendo la vicenda fin dall’inizio, perchè il ruolo dei fumettisti come attori dell’informazione si è imposto con decisione nel corso di questi mesi. 
La potenza delle immagini che realizzano e la loro ironia dissacratoria hanno  raccontato e informato sui mesi caldi delle rivolte arabe.
Ed è probabilmente la forza di queste denunce ad aver portato Mohammad in carcere.


(Tutte le vignette pubblicate sono di Mohammad Saba'aneh. Si ringrazia il collettivo Cartoonmovement per averle messe a disposizione di Osservatorio Iraq). 

4 marzo 2013


Fonte:



domenica 3 marzo 2013

Rapina a Roma. Ucciso Giorgio Frau

Venerdì 01 Marzo 2013 15:00





ARAFAT JARADAT E' STATO ASSASSINATO DAGLI AGUZZINI SIONISTI DOPO OTTO GIORNI DI TORTURA


Arafat Jaradat è stato assassinato dagli aguzzini sionisti dopo otto giorni di tortura! 

di ForumPalestina

Continua la mobilitazione dei palestinesi dopo la notizia della morte nel lager israeliano di Megiddo del militante palestinese Arafat Jaradat. Il giovane palestinese era stato arrestato 8 giorni fa dalle unità speciali dell’esercito israeliano durante un rastrellamento. La sua detenzione nel centro dedicato agli interrogatori, che avvengono in regime di totale isolamento e che prevedono l’uso di pressioni “fisiche e psicologiche”, lascia pochi dubbi sulle cause della sua morte; Arafat Jaradat è stato assassinato dopo otto giorni di tortura.
La tensione sta salendo nelle strade della Palestina occupata che risponde così a questo ennesimo assassinio e si stringe intorno allo sciopero della fame ingaggiato da tremila detenuti politici palestinesi, che si sono aggiunti alla lotta dei quattro detenuti politici Samer Issawi, Ayman Sharawneh, Ja’far Ezzedine, Tariq Qa’dan, in digiuno contro l’infame regime giudiziario e carcerario sionista.
La dirigenza politica e militare sionista, di fronte a questa prova di forza del popolo palestinese, sta rispondendo con le forme consuete di un’entità occupante e coloniale, repressione e terrore. L’esercito e la polizia sionisti hanno risposto alle manifestazioni popolari palestinesi sparando lacrimogeni e proiettili di gomma ad altezza d’uomo, effettuando rastrellamenti nel tentativo di fermare le proteste. Il Primo Ministro israeliano Benyamin Netanyahu, con l’arroganza che contraddistingue la peggior genia di dittatori, pretende che sia l'Anp a riportare la calma nella Cisgiordania, dopo che i soldati israeliani hanno ucciso Jaradat.
L’escalation della repressione israeliana ha spinto il segretario generale della Lega Araba Nabil el Araby ad elevare una formale protesta. Una reazione priva di qualsiasi reale impatto per gli israeliani, visto che i maggiori rappresentanti della Lega Araba sono tra i garanti della resa ad Israele. I governi che compongono la Lega Araba, tra cui Giordania, Oman, Arabia Saudita e, nonostante l’avvento dei Fratelli Musulmani, Egitto e Tunisia, hanno ribadito la loro alleanza con gli USA e l’UE e non si sognano affatto di mettere in discussione i trattati di pace con Israele.
E’ necessario continuare a denunciare la complicità internazionale a sostegno di Israele; questo significa attaccare politicamente gli interessi della borghesia europea ed italiana con l’occupante sionista. E’ altrettanto importante far sentire in maniera concreta e diretta la nostra solidarietà al movimento di liberazione palestinese e ai prigionieri politici, che in questo momento rappresentano il punto più alto della lotta contro l’occupante sionista.
Ci stringiamo a fianco del popolo palestinese per la morte di Arafat Jaradat.
Libertà per i prigionieri politici palestinesi!
Basta con la detenzione amministrativa!
Basta con le torture nei lager israeliani!

Forum Palestina


Fonte: